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Africa, magia e calcio

Esistono storie che non esistono”, esordiva uno degli esilaranti trailer di Maccio Capatonda. Sebbene sembri paradossale, non lo è così tanto. Lo scrittore Fritz Leiber, infatti, parlava del “fantasma di fumo”, una superstizione che per i suoi effetti concreti diventa reale – argomento che abbiamo già trattato anche in relazione a fake news e propaganda. Altri fantasmi di fumo sono stati raccontati nello spettacolo Oltreconfine, nel corso del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia (IJF) appena trascorso. E la narrazione di Giulio Di Feo, Gazzetta dello Sport, ci ha portato in Africa occidentale, per delle incredibili storie dove calcio e magia si mischiano fino a non distinguersi più.

I segreti per essere un buon storyteller sono pochi: le storie devono avere potenza, meglio se si rifanno ad archetipi, all’eterna lotta fra il bene e il male, a grandi vittorie e altrettanto grandi sconfitte; devono essere universali, cioè apprezzabili indipendentemente dalla geografia; soprattutto emblematiche di una realtà più complessa del singolo caso. Allo stesso modo, sono assolutamente da evitare gli stereotipi, visioni ristrette, come gli aneddoti riportati dalla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, che arrivata negli Stati Uniti si scontrò con la coinquilina, sorpresa dal fatto che lei parlasse inglese (lingua ufficiale della Nigeria!) e che ascoltasse Mariah Carey e non musica tribale.

La Costa d’Avorio festeggia la vittoria nella coppa d’Africa di calcio e la rottura della maledizione

Ma torniamo all’oggetto principale. L’Africa, in particolare occidentale, di stereotipi ne richiama tanti. Da un’indagine del periodico online Quartz è emerso che su 40 copertine di libri di ogni genere che trattassero l’argomento, tutte avessero un’acacia al tramonto. Qualcuno osava anche con delle gazzelle, ma quell’albero, secondo gli editori, riassumeva un continente intero in un’immagine. Altro stereotipo è la magia, sintetizzata dagli allegri colonizzatori bianchi nel termine juju, cioè l’insieme di credenze, tradizioni e riti. Come se i bravi civilizzatori razionali europei non avessero caccia alle streghe, superstizioni, gatti neri, specchi rotti, sale caduto, venerdì 13 o 17 a seconda del Paese. Se proprio vogliamo trovare una differenza, è che in Europa le scaramanzie nello sport non sono state vietate, mentre in diversi Paesi dell’Africa il juju è bandito, ma più che altro per motivi di immagine.

Il giornale sportivo Abidjan si chiede se non sia ora di chiedere scusa agli stregoni di Akradio

C’è chi però non si è preoccupato dell’opinione del mondo, pur di tornare a vincere. È la storia della federazione della Costa d’Avorio, caduta in preda a una vera e propria maledizione per oltre 20 anni. Nel 1992 gli “elefanti” vincono la Coppa d’Africa per Nazioni, giocata in Senegal, al termine di un’estenuante serie di rigori con il Ghana. 11-10 per gli ivoriani, favoriti, sebbene dall’altra parte ci fosse un certo Abedi Pelè, talento puro del calcio africano. Tutti felici e contenti (non in Ghana, chiaramente), tranne gli stregoni di Akradio, villaggio costiero praticamente isolato dal resto del Paese.

La federazione e il ministro dello Sport René Diby avevano infatti contattato questi stregoni per aiutare la squadra ricorrendo alla magia bianca: sortilegi per far correre come antilopi, api evocate per distrarre gli avversari con punture misteriose, difensori sdoppiati per sfinire gli attaccanti. Dettaglio: la Costa d’Avorio vince, ma gli stregoni non vengono pagati e decidono di vendicarsi. Sarà un caso, sarà la pressione psicologica, fatto sta che la Nazionale non vince più per ben 23 anni, seppure fosse indiscutibilmente la più forte del continente, con campioni assoluti come i fratelli Tourè (Arsenal, Barcellona, Manchester City), Gervinho (Arsenal e Roma), Konè (Psv, Siviglia, Everton) e soprattutto Drogba, campione d’Europa con il Chelsea.

Arrivano sconfitte clamorose in questi anni, su tutte quella con lo sfavoritissmo Zambia nel 2012. Ma anche ai mondiali gli elefanti, dati non per favoriti ma quasi, escono sempre al primo turno, nel 2014 contro la meno quotata Grecia. Bisogna riprendere la situazione in mano, così federazione e allenatore (francese, la terra dell’illuminismo!) Hervé Renard si recano ad Akradio, saldano il debito con gli stregoni e chiedono scusa. Risultato, nel 2015, alla prima occasione, la Costa d’Avorio torna a vincere la Coppa d’Africa. Per chiudere il ciclo, proprio contro il Ghana e sempre ai rigori, anche se stavolta con due tiri di sconto, finisce “solo” 9-8.

Robert Mensah, portiere ghanese, con il suo berretto capace di infondere magia bianca. Di lì a poco, campione della coppa campioni d’Africa di calcio.

E parlando di Ghana, Di Feo ci porta indietro nel tempo, ai primissimi anni ’70. A difendere la porta dell’Asante Kotoko, squadra di Kumasi chiamata i porcospini, c’è Robert Mensah, a detta di chi lo ha visto giocare uno dei migliori portieri di sempre, agilissimo nonostante i quasi due metri di altezza. Cresciuto nella squadra dall’emblematico nome di Mysterious Dwarfs, gli gnomi misteriosi, Mensah aveva quello che era più di un feticcio portafortuna: il berretto donatogli dal nonno, pastore di anime, mentre era in punto di morte. Per tutti era il segreto della sua forza, tanto che i giocatori avversari cercavano spesso di toglierglielo, in preda alla frustrazione per le miracolose parate e per la strafottenza di Mensah. Pare infatti che leggesse il giornale mentre stava in porta, giusto per sminuirli.

Fin qui (quasi) niente di strano. Ma arriva il giorno in cui Mensah diventa leggenda. Gennaio 1971, finale della Coppa dei Campioni d’Africa, l’equivalente della Champion’s League. Di fronte l’Asante Kotoko e i congolesi dell’Englebert, gli onnipotenti. Piccolo passo indietro, è la rivincita della finale di tre anni prima, quando i ghanesi persero a tavolino perché, dopo due pareggi, non furono avvisati di quando e dove giocare lo spareggio. All’andata, a Kumasi, finisce 1-1. C’è da giocare il ritorno a Kinshasa. Il Congo è sotto il regime di Mobutu, che cambia il nome in Zaire e, come tanti colleghi dittatori, punta sullo sport come veicolo di propaganda. Per vincere la coppa utilizza mezzucci – come spedire i porcospini in un albergo malandato, con le finestre (rotte) vista palude e relative zanzare – e la più classica corruzione dell’arbitro.

Lo stemma degli Asante Kotoko, i porcospini

I ghanesi però non ne risentono e ribaltano lo svantaggio, difeso poi strenuamente dai voli atletici di Mensah. La partita volge al termine, quando il direttore di gara inventa un rigore per gli onnipotenti. Il mister degli Asante vuole ritirare la squadra, per protesta, ma Mensah lo blocca. Si sente in grado di parare il rigore e vincere la coppa. Però, se vuole restare in porta, deve togliersi il berretto che nessuno era mai riuscito a sfilargli. È juju, quindi va vietato, sostengono gli onnipotenti. Mensah, senza batter ciglio, sfida i 90 mila tifosi accorsi allo stadio 20 maggio e i militari a bordo campo, mostrando lentamente e platealmente l’oggetto della discordia. La paura è talmente tanta che i soldati infilzano con le baionette il cappello che giace a terra, come a volerne letteralmente uccidere l’influenza. Mensah fa altre benedizioni e un balletto sulla riga di porta per distrarre il tiratore, l’infallibile Shinabu tira alto e gli Asante trionfano, entrando nella storia. Purtroppo Mensah verrà ucciso in una rissa da bar alla fine dello stesso anno, facendo piombare in lutto tutto il Paese, che per la seconda e ultima volta lo vedrà senza il famigerato berretto.

Mami Wata, divinità marina spesso invocata prima delle partite di calcio in Africa occidentale

L’antropologo olandese Arnold Pannenborg ha studiato l’incidenza della superstizione nel calcio in Africa, scoprendo che la forma di juju cui si ricorre di più è la divinità acquatica Mami Wata, che eviterebbe di subire gol. Ma noi non siamo messi meglio. In fondo scomodare Dio, Allah o chi per loro per segnare al Pescara ultimo in classifica o per non prendere gol dal Chievo cosa ha di diverso? Così come l’acqua santa di Trapattoni, giocare sempre con le stesse mutande o sedersi allo stesso posto nel bus della squadra. Ma se si parla della magia di questo sport, un motivo di fondo ci sarà.

Leggi anche… Tutte le altre storie sul “fantasma di fumo”

 


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