Leggi sui crimini d’odio, traduzione dell’inglese hate crimes, sono ripetutamente invocate come antidoto alla discriminazione di genere, etnia, religione, orientamento sessuale, condizioni psico-fisiche. E quando un Paese inserisce queste aggravanti a reati già previsti (un ergastolo può essere aggravato?), generalmente si applaude alla decisione, un passo avanti verso una società civile sana e finalmente paritaria. A ribaltare l’ottica, invece, si può pensare che tale normativa abbia delle contraddizioni in termini e l’unico motivo di gaudio sia la presa di coscienza delle istituzioni di come la popolazione sia becera.
A essere idealisti, ogni legge del genere è un’ammissione di sconfitta. Primo, perché fa ridere l’idea che si specifichi che un crimine sia di odio. Esistono crimini per troppa stima o affetto? Al massimo per assenza di empatia, come piccoli furti non dovuti all’avversione per i ricchi. Secondo, sembra un intervento paternalista del legislatore, dettato dal senso di colpa di quelli che George Carlin chiamava “liberali bianchi colpevoli”. Poi, perché è un’ulteriore divisione della società, un’etichettatura in gruppi contrapposti: uomini contro donne, nativi contro immigrati, etero contro omosessuali, cristiani contro atei, musulmani o ebrei, destra contro sinistra (che effettivamente sono in competizione, ma non per questo bisogna tornare agli anni di piombo). Infine, perché si implica il bisogno di regolamentare la vita comune con divieti che dovrebbero essere ovvi e acquisiti, se c’è il bisogno di ricordarlo per iscritto, appunto, è il fallimento.
È un passo indietro nell’equiparazione di tutti. Prendiamo il problema della violenza della polizia negli Stati Uniti. Tanti afroamericani uccisi, rivolte, contro-uccisione di poliziotti, tutto gravissimo ed è innegabile che ci sia anche del razzismo alla base. Ma la vera questione, globale, è l’abuso di potere delle forze dell’ordine, altrimenti dovremmo dire che l’omicidio di un Mike Brown è tra i crimini d’odio mentre quelli di un Cucchi e di un Aldrovandi non lo sono. O, per rimanere in Italia, Rosa Bazzi (di Olindo e Rosa, da noi alcuni assassini tipo Erika e Omar sono conosciuti anche solo per nome, come certi comici o cantanti) che uccide tre donne perché fanno troppo rumore, non lo fa per odio? Solo per pura combinazione non rientra in quella fattispecie di reato. Si possono fare mille esempi, colpire con la mazza da baseball quello che ti ha tagliato la strada in macchina, obbligare un vegano a mangiare carne (si può essere creativi) sfondare la vetrina di una banca o vandalizzare un ufficio governativo. Ah no, quello è considerato terrorismo!
L’Italia è parzialmente indietro, ma è come dire di essere gli ultimi ad aderire a un programma di recupero dalle dipendenze, cioè gli ultimi ad ammettere di avere un problema. Non certo essere arrivati alla soluzione, che forse è raggiungibile solo utopisticamente. La legge 654 del 1975 prevedeva specifiche sanzioni anche per l’incitamento alla violenza per motivi etnici, razziali, nazionali o religiosi, è stata ripresa dalla legge 205 del 1993, ma mancavano genere, orientamento sessuale e disabilità. Una grottesca discriminazione nell’antidiscriminazione, rilevata dal rapporto di Human Rights Watch. Nel 2009 il Consiglio dei Ministri dell’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha incitato gli Stati a intraprendere la giusta strada nel combattere i pregiudizi, perché, come si leggerà nella successiva Guida Pratica, “minano i diritti fondamentali e il diritto di uguaglianza, cardine di ogni Stato democratico”, che è un po’ un’ovvietà, eppure…
Più la legislazione è arzigogolata, più la situazione è grave. Basterebbe avere a mente quei due-tre principi basilari, tipo banalmente non fare del male a nessuno, fisicamente o moralmente, perché il nessuno dovrebbe già comprendere tutti, a prescindere da “incidenti” genetici, la casualità del sesso e della nazionalità – che poi influenza la religione – o dell’orientamento sessuale quando si cresce. Ancora più intricata la situazione degli Stati Uniti, dove oltre agli hate crimes si osservano con attenzione i black on black crimes, cioè reati di neri contro altri neri. Riassumendo: se sei nero (ma vale anche per i latini) non puoi colpire i bianchi, perché oltre al razzismo c’è di mezzo la sicurezza pubblica, da barricarsi in casa! E non puoi colpire altri neri, perché sennò non hai senso di comunità. Sull’Huffington Post americano è uscito un articolo nel 2015 (!) in cui ci si accorge che esiste anche il fenomeno dei white on white crimes. Però, che giornalismo di inchiesta! L’importante è comunque dare un colore al crimine, analizzarlo statisticamente più che risalirne alle radici.
Probabilmente quel pessimista cinico di Thomas Hobbes aveva ragione. Nello stato naturale la voglia di imporsi sugli altri prevale sulla solidarietà e sul senso collettivo. Così si fa un patto sociale per cedere un bel pezzo di libertà in cambio di un pezzetto di sicurezza, perché la legge da sola non può fare da deterrente – è un fatto – salvo armarsi tutti quanti o cedere i residui di libertà per affidarsi a uno Stato totalitario di polizia. Oppure potremmo smentire Hobbes, fare una svolta di 180° e costruire una società unitaria senza condizioni, dove i crimini d’odio diventino una sovrastruttura da mettere in soffitta come tutte le cose obsolete.
Pensieri troppo utopisti?
“Immagina la gente vivere in pieno rispetto, senza Parioli o ghetto, lo immagino perfetto
[…] Immagina l’intelligenza, usata con coscienza, puoi solo immaginarla perché la realtà è diversa”
Inoki ft. Tandem, Immagina