In tutti i rituali antichi delle varie religioni del globo, è noto, venivano (o in alcuni casi ancora vengono), sacrificati animali che dovevano ingraziare la divinità o placarne la rabbia, per qualche comportamento non gradito della comunità. Valeva per il monoteismo come per il politeismo. In particolare gli ebrei immolavano un caprone nel giorno del kippur (espiazione), per estensione il termine “capro espiatorio” ha riguardato intere categorie etniche, sociali, politiche, religiose, di genere, catalizzatrici di tutti i mali del mondo.
Sappiamo bene come di secolo in secolo, di epoca in epoca, è sempre stata colpa di qualcun altro. Cristiani, ebrei, musulmani, streghe, untori che portavano la peste, anarchici, rom, lavoratori (Uber), omosessuali (nel 2016 ancora qualche idiota ha avuto il coraggio di dire che i terremoti nell’Italia centrale sono diretta conseguenza dell’approvazione delle unioni civili). Ovviamente gli immigrati, il capro espiatorio più attuale con i sempreverdi islamici, i sionisti controllori di banche e finanza, l’intera classe politica (come se Vladimir Putin, Donald Trump, Matteo Salvini e Marine Le Pen fossero uguali a Bernie Sanders, José Mujica, Benazir Bhutto e San Suu Kyi…), i medici, i giornalisti, tutti parte di un grande complotto.
Ma non sono solo le persone a fregiarsi del poco ambito titolo di capro espiatorio, tocca anche ad alimenti, piante, sostanze, di nuovo animali – intesi stavolta come piatto di carne. Una delle mode del momento è il senza glutine. Celiaci e intolleranti esistono e si sono moltiplicati, ma, a parte loro, gli altri non hanno problemi a mangiare glutine, semmai il problema è la sua lavorazione, come è processato un cibo che lo contiene. Anche perché i carboidrati, pane, tipi di pasta e pizza sono millenari in tutto il mondo (anche se in Italia ci piace pensare di detenere l’esclusiva). Anzi, secondo uno studio del gastroenterologo Norelle Reilly, pubblicato dal Journal of Pediatrics, è rischioso evitare il glutine perché i prodotti che non lo contengono hanno più zuccheri e grassi e si diminuisce la varietà di cibo, rimanendo esposti a tossine come arsenico e mercurio.
Anche l’allarme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul consumo di carne rossa ha scatenato il panico. Sicuramente mangiare sempre, tutti i giorni carne, specialmente processata, è tutt’altro che salutare. E c’è anche un discorso di sostenibilità, già che molte coltivazioni (come la soia) destinate all’alimentazione di animali che finiranno nei supermercati e poi a tavola, causano la deforestazione o l’impoverimento di molti territori. Ma secondo gli studi di alcuni esperti pubblicati da Elementa non sarà il veganesimo a salvare l’ambiente. Questa dieta riesce a nutrire meno persone di quella vegetariana o con basso, magari bassissimo, consumo di carne. Un consumatore statunitense medio necessita di oltre un ettaro di terreno ogni anno per il fabbisogno alimentare, un regime vegetariano riduce la superficie a 0,2 ettari. Non tutti i terreni però sono uguali, ma più o meno adatti a diverse colture. Così ci sono quelli da pascolo o altri perenni con cicli attivi tutto l’anno, perfetti per il grano ma anche per il fieno che nutre bovini e altro bestiame. Ergo, il veganesimo non sfrutterebbe questi tipi di coltivazione, non ottimizzando le risorse.
E poi c’è il padre di tutti i capri espiatori del momento, anche se ultimamente se ne parla meno: l’olio di palma, praticamente un nettare di Satana. Due le criticità, salute ed etica. Per l’Istituto Superiore di Sanità nell’olio di palma non ci sono sostanze tossiche di per sé. C’è una concentrazione di grassi saturi molto più elevata di altri olii, nociva specialmente per i bambini, i maggiori consumatori di merendine che appunto contengono spesso olio di palma raffinato. Ma non è che abusare ad esempio del nostrano olio di oliva sia consigliabile, i rischi sono sempre gli stessi, problemi cardiovascolari, arteriosclerosi, ictus. L’altra criticità è ambientale, visto che zone di Indonesia e Malesia subiscono la deforestazione per la sua produzione, con gravi danni all’habitat dell’orango e altri animali.
Male, vero, ma tutte le colture intensive sono dannose e non sostenibili. Dal caffè ai cereali, è la metodologia di coltivazione a fare la differenza, non la pianta. La monocoltura, impoverendo il suolo, pregiudica la biodiversità – non a caso migliaia di anni fa capirono di dover praticare la rotazione. La Fao ha denunciato la precarietà della produzione di cereali, che hanno il maggiore apporto al fabbisogno alimentare mondiale, per l’esaurimento delle falde sotterranee e l’inquinamento, con tutti gli effetti a catena che ne scaturiscono – l’estinzione di una specie coinvolge le altre che ne vengono direttamente a contatto, per nutrirsene, per l’impollinazione ecc.
Ultimi capri espiatori, solo in ordine di tempo, sono state le povere palme bruciate a Milano in piazza Duomo. Gli ignari vegetali hanno raccolto la frustrazione scatenata dall’iniziativa del comune lombardo per rinnovare gli spazi verdi, affidata alla multinazionale Starbucks. Nelle intenzioni le palme dovevano riprendere una tradizione ottocentesca, con molta malafede è stata interpretata dalla solita parte politica come l’ennesimo tentativo di colonizzazione africana.