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Si arriverà a eliminare le carceri? Le nuove direttrici (2)

[continua da I soliti reclusi] Il carcere di Regina Coeli è gestito da uno staff di donne, ma non è l’unico. Anzi. Nel 2013 su 206 istituti penitenziari, solo in Italia, 86 erano diretti da donne, con il trend in crescita. La media non è male rispetto ad altri lavori. Perché? Secondo la giornalista Carlotta Zavattiero che aveva condotto la ricerca, per tre motivi: “sono più preparate (bisogna studiare per accedere al concorso), i detenuti le preferiscono per la maggiore predisposizione all’ascolto, infine, cosa più importante, hanno una visione di lungo periodo”.

In ambito carceri la visione più lunga, sulla struttura e non sull’emergenza, in Europa ce l’ha per esempio la Svezia: nello stesso anno ne ha chiusi 4 grazie ai buoni risultati raggiunti in seguito all’adozione delle cosiddette “misure alternative alla detenzione”. In Olanda invece, (per una volta contro il suo stereotipo di Paese “perfetto”), le misure alternative per legge sono possibili solo per gli olandesi. “Perché ancora non è stata sanzionata?”, si chiede Paolo Borgna, procuratore aggiunto del Tribunale di Torino. “Almeno in Italia sulla carta l’uguaglianza c’è“, è dal ’48 che la Costituzione parla di rieducazione della pena (art. 27), che “è un valore, non un’autorità”. Infine recepito nel 1975 con la legge che ha introdotto le misure alternative anche in Italia:

  • l’affidamento in prova al servizio sociale
  • la detenzione domiciliare
  • il regime di semilibertà
  • la liberazione anticipata

Per chi rimane dentro si deve comunque affrontare la questione “tempo” e quella “abbrutimento” (per non elencare evoluzioni peggiori), aspetto che non sarebbe possibile gestire senza l’aiuto di associazioni e volontari.

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Questo che vedete è InGalera, il primo ristorante nato all’interno di un carcere, pensato per dare un lavoro ai detenuti. Si tratta di Milano Bollate, gestito per 10 anni da Lucia Castellano (fino al 2011) che l’ha riqualificato rendendolo un carcere modello, invidiato perfino a New York.

Durante la visita a Regina Coeli, una delle prime stanze aperte che incontriamo è un piccolo laboratorio artigianale, curato dalla signora Freda Angiolina. Ogni anno sotto Natale viene allestito un mercatino per vendere ciò che è stato creato, appena fuori le mura. “Mi sono fatta anch’io 61 anni di carcere“, sorride la signora che non è detenuta, ma ha liberamente scelto di lavorare qui dentro per 40 anni e altri 20 prima, in un carcere minorile. Oltre al laboratorio, vengono organizzati corsi di buddismo, progetti  di scrittura (anche per affrontare l’infanzia dei detenuti), musica e musicoterapia, laboratori teatrali (famoso quello di Rebibbia), dialoghi religiosi che cercano di aiutare la convivenza in un ambiente che per la prima volta registra una presenza enorme di stranieri. I volontari hanno allestito anche una lavanderia, pensata per chi non ha parenti, che alla fine sono sempre loro”, dice Margherita Marras, la capo delle attività formative e ricreative.

Una criticità è proprio l’assenza dei mediatori culturali, (un lavoro recente, previsto dal 2000, che però non ha mai visto arrivare i finanziamenti promessi!): si verificano conflittualità su religioni e moralità, per esempio tra albanesi e magrebini su questioni di Islam. A dicembre nel carcere di Cassino un palestinese 40enne ha dato fuoco alla sua cella, la sera prima un italiano ha devastato la sua, voleva un lavoro, l’altro l’avvicinamento alla famiglia: entrambi finivano la pena nel 2017. Tanto per capire il livello di disagio, dato anche dal sovraffollamento: 6.147 detenuti nel Lazio, quando la capienza si attesta intorno ai 5mila.

A Regina Coeli si può usufruire infine di una biblioteca e uno sportello legale. Nel 2010 è stato aperto anche uno sportello psicologico di ascolto, previsto sia per i detenuti che per il personale penitenziario. Ogni intervento prevede cinque incontri su un problema specifico. Di questo direttorio è anche l’iniziativa Parla col detenuto, un modo per rompere il muro divisorio tra dentro e fuori. Il problema è che è il fuori a essere spesso poco ricettivo: all’epoca contattarono 10 testate per le interviste, ma risposero solo Il Tempo e il Tg5. Nel 2016 il sindacato della polizia penitenziaria ha ricordato che “negli ultimi 20 anni ha sventato più di 18mila tentati suicidi e impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Due avvennero proprio a Regina Coeli nel luglio 2015.

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Una cella del carcere Langholmens Vandrarhem di Stoccolma che fa pensare più a Ikea che a una prigione

Valerio è un detenuto del carcere trasteverino, “un ospite forzato” come si definisce. Ha 50 anni, di cui 20 passati in carcere, a proposito di misure alternative. Nel suo racconto-fiume affronta molti stereotipi: “Le giornate sono lunghe, ma qui dentro non ci sono tatuati che fanno pesi o maltrattamenti. Ma nemmeno benessere. Diciamo che ci si può accontentare, partendo dal principio che siamo in un carcere. Questo alla fine è gestito bene per le possibilità che danno: chi non ha lavoro, dentro quattro mura passa solo il tempo a rimuginare, e non va bene. Le problematiche alla fine sono sempre le stesse che si individuano e gestiscono in perpetuo ritardo. Servirebbero fondi e una loro buona gestione. Il senso di alienazione che si subisce appena entrati è lo stesso, ma almeno oggi si usano i nomi invece che i numeri. Alla fine credo che sia inutile migliorare il carcere se prima non si migliora quello che c’è fuori: arroganza, ignoranza, indisponibilità, sono poi gli stessi problemi dentro il carcere. Si scrivono poesie qui dentro e poi fuori dicono che non è possibile. Il progetto educativo è sostanziale, le opportunità di aggiornamento e le distrazioni. Ma come possiamo pretendere una corsia preferenziale per il lavoro, se il lavoro non c’è normalmente? Fuori abituati a comperare, qui a sperare di poter avere (un paio di calzini lunghi). Le etnie che compongono oggi il carcere non sono uguali nemmeno a quelle di 5 anni fa. Non è possibile unire usi e costumi diversi in questo modo, spesso è un grosso danno e le guardie sono impreparate a gestirlo. Se in Gambia usano le legnate, come interpretano la cortesia? La cosa positiva è il tempo per riflettere. Fuori non c’è, qui ne abbiamo da vendere. Quando si sta dentro si possono avere tutte le buone intenzioni, ma poi? Non tutti, ma molti rientrano nonostante le sofferenze passate. Dicono che un giorno le carceri non ci saranno più, ma io non penso: la nostra tara sono i soldi… ma il crimine non paga”.

Quello che dice Valerio è vero: nel 1987 c’erano 3.377 stranieri su 30mila detenuti in Italia, nel 2011 erano già 17.035 su 52mila (1/3), con punte dell’80% in alcuni istituti penitenziari: una situazione completamente diversa rispetto ad appena 30 anni fa. Inoltre “negli anni ’70 c’erano pulsioni autoritarie che oggi non ci sono: le “guardie” avevano atteggiamenti diversi rispetto agli “agenti” di oggi, ma al contempo, la situazione era più facile perché i detenuti erano più o meno tutti italiani e cattolici. Potevano addirittura sperare di trovare lavoro dopo. Oggi si tratta di gente che fatica a parlare e capire, con differenze culturali e religiose, senza famiglie vicine, e con prospettive future incerte, o sarebbe meglio dire certe: rimpatrio o illegalità. Insomma, per loro una pena in più. Se sei sradicato hai anche meno possibilità di usufruire delle misure alternative: gli arresti domiciliari, per esempio, senza famiglia proprio non si possono fare”. Alimentando un rischio esclusione insomma, che può portare al più citato rischio radicalizzazione. La Francia insegna: nel suo ultimo libro Il jihadista della porta accanto, l’ex deputato PD scomparso un anno fa, Khaled Fouad Allam racconta la storia del primo jihadista europeo diventato terrorista nel 1995: una storia che va dall’isolamento alla delinquenza, dal carcere alla Jihad.

Se lavoro e attività non vengono gestite in modo virtuoso... il rischio della "prigione-industria", lavori forzati a 0 costi.
Se lavoro e attività non vengono gestite in modo virtuoso… il rischio della “prigione-industria”, lavori forzati a 0 costi.

Kaled Kelkhal, nato in Algeria e trasferito in Francia a due anni. Sembra destinato a una vita tranquilla, a scuola va bene, non ha grilli per la testa. Poi al liceo lo scontro con una realtà in cui viene escluso, emarginato”, niente feste o partite a pallone. Kaled comincia a delinquere e finisce in prigione. Qui conosce l’Islam politico e sente che l’Europa ha mancanza di rispetto (baciare una ragazza davanti ai propri genitori, guardare i film porno…). Pensa: lo Stato non può trattare meglio chi sbaglia rispetto a chi non lo fa. Entrando in contatto con ambienti estremisti, arriva al punto di compiere diversi attentati. Verrà ucciso dalla polizia a Lione mentre ancora punta la pistola sui gendarmi che lo circondano”. Ma non bisogna cadere nel tranello: “quello che oltre dieci anni fa era l’ambiente assolutamente permeabile al radicalismo, ossia la prigione, oggi potenzialmente è ogni luogo grazie a internet e in particolare ai social network”.

Se è impossibile controllare tutto ciò che passa attraverso la rete, si può almeno avere cura del carcere, ma davvero “è possibile umanizzarlo o confliggerà sempre e comunque con i diritti umani?”. Forse è questa la domanda centrale, e se la chiede il procuratore. “In tal caso bisognerebbe abolirlo e applicare solo misure alternative. Ma anch’io, come Valerio, penso che non sarà totalmente possibile. Tu rinunci alla violenza perché io Stato mi prendo cura della violenza: fa parte del patto Stato-cittadini. Ma di certo credo poco anche nella sua funzione preventiva: mi viene sempre in mente un dipinto fiammingo, quello del ladro che ruba il portafoglio a quello che guarda il ladro impiccato. Infine, anche la rieducazione ha un problema, fa indottrinamento, ma bisogna essere onesti: non è mai certa, imposta o impossibile. Il diritto alla speranza è insopprimibile”.

«La soluzione del problema carcerario potrà raggiungere il completo successo se si risolveranno le principali questioni connesse a tale problema: amministrazione carceraria, edilizia, trattamento dei detenuti, regime carcerario, assistenza materiale, morale, sanitaria e spirituale ai detenuti, formazione di un Corpo di Agenti di custodia intelligente, preparato, selezionato, adeguatamente retribuito, moralmente elevato. Nel nuovo assetto democratico del Paese, trascurare questa importante questione sociale e giuridica significherebbe abdicare a quelle posizioni di civiltà, che ci competono per antichissima, nobile tradizione».

Amedeo Strazzera-Perniciani, direttore a Regina Coeli dal 1942 al 1944

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