Il carcere giudiziario di Regina Coeli si trova a Trastevere, nel cuore di Roma, con la Casa Internazionale delle Donne condivide via della Lungara, a fianco del fiume, e in questa storia le donne c’entrano parecchio. Sorge su un antico convento del Seicento, dove vivevano in clausura le “Mantellate”, per accogliere proprio la sezione femminile, quando nel 1881 insieme all’edificio adiacente, venne trasformato nella “casa circondariale” della Capitale, cioè un “luogo di passaggio” (eufemistico per un carcere!).
Significa che un detenuto può restare a Regina Coeli massimo 1 anno, ma nonostante fosse stato costruito proprio per risolvere il problema del sovraffollamento… questo continua a essere il suo problema principale (come nelle migliori e lente tradizioni italiane). Un luogo carico di stereotipi, visti da fuori, ma come si vedono e cosa dicono da dentro? “Non ce la possiamo fare se, per dire, in un giorno arrivano 30 arresti per Mafia Capitale. Comunque non ci ritroviamo in quello che viene scritto su di noi” afferma il direttorio del carcere, al femminile, con la direttrice Silvana Sergi, la vice Alessandra Brugnoli e molte altre donne impegnate su tutti i livelli.
Probabilmente nell’Ottocento era ben lontano dal centro città (come lo era il manicomio di Santa Maria della Pietà, che stava sempre a via della Lungara), ma oggi è importante che si sia ritrovato fortuitamente al centro: permette alle famiglie di rimanere vicine ai loro parenti”. E alla società di ricordare che esiste anche questo! Perché “avvicinare la realtà significa allontanare le paure”, dice Paolo Borgna, procuratore aggiunto del Tribunale di Torino.
Regina Coeli ha una struttura a raggiera, “ma non è un vero Panopticon, così era solo il carcere di Santo Stefano”, una delle isole ponziane di fronte a Gaeta. A raccontare è Assunta Borzacchiello, capo ufficio stampa del Dap (Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria). “Quattro papi sono venuti qui in visita: nel 1958 Giovanni XXIII che fece aprire tutto perché voleva andare verso i detenuti, Paolo VI nel ‘64, Giovanni Paolo II nel 2000 e Benedetto XVI nel 2011”. Il comandante del carcere è Rosario Moccaldo: “Regina Coeli è composto da 8 sezioni detentive, 3 quadranti per le attività di lavoro, più un centro clinico. Ogni sezione prevede un “passeggio” di 2-3 ore al giorno anche per giocare a pallone”.
Ieri, un luogo che Mussolini voleva trasformare in una città penitenziaria (ma poi con l’inizio della guerra di Etiopia non ci furono più fondi) e dove girarono (a fasi alterne) antifascisti e fascisti, la stessa Gestapo, che durante gli anni dell’occupazione controllava “il famigerato terzo braccio”. Quelle mura nel tempo hanno visto ogni genere di violenza e tortura. E a esse è connesso anche il tragico assassinio di Donato Carretta, direttore del carcere ai tempi, linciato dalla folla a causa di… uno stereotipo : “capo delle guardie” sicuramente colpevole di aver redatto la lista dei 50 detenuti da aggiungere per completare il numero di italiani da massacrare nelle Fosse Ardeatine. Quando in realtà la strage era voluta, come accade spesso, da molto più in alto. Carretta, in realtà, aveva aiutato la Resistenza, favorendo l’evasione da Regina Coeli sia di Pertini che di Saragat. E il giorno in cui venne ucciso, aveva appena deposto contro Pietro Caruso, il questore di Roma, il vero mandante (o almeno, l’esecutore dei feroci voleri di Kappler).
Oggi, un carcere di “prima accoglienza”, ovvero di “presunti innocenti”, dove “passa di tutto”, ma alla fine, e sempre di più, “si moltiplicano gli stessi: stranieri, tossicodipendenti e senza dimora”, sottolinea la responsabile dell’“area trattamentale”, Margherita Marras. Insomma i soliti reclusi. “Esistono tanti reati, ma poi nelle carceri ci sono i soliti 4-5”, aggiunge Borgna, “per esempio l’Italia sui reati di corruzione ha il primato, ma paradossalmente abbiamo meno detenuti che la Germania!” Nel 2013 la presidente della Camera Laura Boldrini definì Regina Coeli “un magazzino di carne umana” e senza Marco Pannella se ne parla sempre meno…
Ma dal 1948 (dopo che abbiamo eliminato la pena di morte) la Costituzione lo dice chiaramente: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato… (art. 27). Con “area trattamentale” si definisce proprio “l’insieme delle attività formative e ricreative fornite all’interno di un istituto di pena”. Ma forse non basta…
Nel frattempo “il carcere” è ora anche online, nel tentativo della trasparenza, riportando ogni attività scolastica, lavorativa, culturale e sportiva. La nuova piattaforma carceri non nasconde la realtà: i dati (aggiornati al 29 gennaio 2016) segnalano la presenza di 849 detenuti su 624 “posti regolamentari”: 225 persone in più. Per “350 uomini che gestiscono sicurezza, colloqui e uffici (per gli acquisti dei detenuti e il recupero crediti).
I pregiudizi sulle “guardie”. Fino agli anni ’90 si chiamavano “agenti di custodia” oggi è la polizia penitenziaria, gente a cui non è mai piaciuto sentirsi chiamare “guardia”o “secondino” perché “dietro c’è un giudizio”, dice Moccaldo. Il “penitenziario” oggi “è una specie di poliziotto, infermiere e psicologo tutto insieme”. Di sicuro, dalla tortura sistematica a oggi (che serpeggia “soltanto”, mai dimenticheremo Stefano Cucchi e tutti gli altri), c’è molto più dialogo tra le due parti: “essenzialmente cercano di farli lavorare. E l’umanità è spesso maggiore della professionalità. Regina Coeli è una specie di pronto soccorso del disagio”.
Tanto si sa che a moltiplicare gli stereotipi ci pensano giornali, tv (e internet) !
Le notizie ansiogene. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, ricorda la carta di Milano del 2013 sui diritti dei detenuti, una nuova norma deontologica per i giornalisti che dovrebbe limitare la comparsa di “contenitori tv, per esempio, che suggerivano correlazioni tra il nero del crimine e il nero della pelle. Nel dibattito escono anche altre cose, certo, ma alla fine passa solo il pregiudizio”. In Italia c’è “il più alto tasso di cronaca nera nell’informazione offerta ai cittadini: addirittura il 66% di notizie ansiogene, contro l’8-16% degli altri paesi europei. Il lato oscuro esiste e non può essere eliminato, ma c’è una sovraesposizione”. Nella carta si sottolinea per esempio “l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari (che non sono – si ribadisce – equivalenti alla libertà)”. Insomma, non esistono più solo condanne o assoluzioni. Inoltre, “non si deve coinvolgere i familiari inutilmente: la persona non è l’atto che ha commesso. In questo senso si svolge spesso una gara al peggio tra i giornalisti perché il titolo vende, ma l’informazione cattiva distrugge la credibilità. Ad Avvenire non ho mai chiesto questo, un’informazione diversa è possibile”.
Insomma, al di là dell’evidente volontà di “andare avanti”, di fatto al momento “abbiamo trasformato il carcere in un ospizio dei poveri?”. Se lo chiede Borgna, e forse per questo, nel processo di trasformazione del carcere del futuro, servono le donne. “La donna è specialista nel lavoro di cura, e le donne sono sempre più presenti, sia nel giornalismo che nel lavoro nelle carceri, in tutti i campi”, sottolinea Tarquinio. “Cura significa anche raccontare la realtà per quella che è. Il carcere dovrebbe essere concepito come si concepisce l’ospedale. Papa Francesco ha detto che lui vede la Chiesa come un ospedale da campo per un mondo ferito. Deve curare e riscaldare i cuori. Perché il mondo, nonostante le chiusure, è fatto soprattutto di relazioni…”
[continua con la seconda parte: Le nuove direttrici]