A volte una rivoluzione può essere molto silenziosa, anche se non parliamo di politica ma di cinema. Pensando alla Storia di questa industria, come capisaldi ci vengono in mente i grandi registi o i generi che hanno rappresentato, poi gli attori, al massimo i libri che hanno ispirato i film – e di riflesso gli sceneggiatori, ma solo se coincidono con il nome del regista. Ancora più ignota per noi non addetti ai lavori è la figura del direttore dei casting: e qui senza dubbio Marion Dougherty è stata un cardine, una di quelle persone che cambiano il corso degli eventi.
Il cinema americano degli anni ’50 andava alla grande, non a caso si era nel pieno dell’età d’oro di Hollywood. Ma c’era qualcosa di troppo statico, un meccanismo ben oliato sicuramente, ma pur sempre una specie di gabbia. I ruoli, quasi come nel teatro dell’antichità, erano più o meno sempre gli stessi. L’uomo duro, l’avventuriero, la donna “vamp” e poco altro a fare da contorno. E gli attori erano specializzati in certe parti, a seconda dell’aspetto fisico. James Dean, Clark Gable (prima della Seconda Guerra Mondiale) o Clint Eastwood erano tagliati perfettamente per ciò che hanno fatto, giusto per fare qualche nome.
Fu proprio la Dougherty a cambiare la prospettiva, come una Copernico della Celluloide. Era il potenziale recitativo dell’attore a dover fare la differenza, il calarsi nella parte magari proprio a dispetto del fisico. Così se nel libro di Charles Webb Il laureato il protagonista è alto e biondo, perché nella versione cinematografica non dare la parte a uno sconosciuto Dustin Hoffman, che nella descrizione non è che rientri pienamente, per usare un eufemismo? Il film è stato un successo, la carriera di Hoffman pure, non è certo uno spoiler.
Marion Dougherty alla fine degli anni ’60 aprì la prima agenzia di casting indipendente, così indipendente che lo studio era in realtà una casa di New York, usata non solo per incontrare gli attori, ma anche dagli scrittori e sceneggiatori in cerca di ispirazione, come un certo Martin Scorsese. Tutto ciò segnava anche la nascita di un nuovo polo cinematografico, nella Grande Mela, ponendo fine al monopolio di Los Angeles, cioè di Hollywood.
Tanti altri sono stati lanciati dalla Dougherty o dai suoi collaboratori quali il suo braccio destro Lynn Stalmaster: Jon Voight, Jeff Bridges (nonostante il fiasco al debutto), John Travolta, Cristopher Walken, un Al Pacino conosciuto come attore teatrale, Gene Wilder, Cybil Shepherd, Glenn Close, Robert Duvall, Gene Hackman, la coppia Mel Gibson-Danny Glover di Arma letale, tutte scommesse vinte contro i pronostici.
“Il casting è un gioco di istinto, senti il talento e il potenziale nello stomaco, è tutta questione viscerale e di fortuna”, diceva la Dougherty nel 1991, nello stesso anno in cui questi nomi e molti altri, come Woody Allen, lanciarono una petizione all’Academy per la consegna dell’Oscar alla carriera a Marion Daugherty, mai ricevuto nonostante fosse rimasta in vita per altri 20 anni.
L’industria non gli è stata troppo grata, non tanto per un premio che lascia il tempo che trova, ma per il trattamento nel finale di carriera. Messa in soffitta forse con troppa fretta nei primi anni ’90, a suo dire (ed è plausibile) perché bisogna lasciare spazio a gente più giovane e bella, che soprattutto porta avanti degli interessi aziendali. Anche se a rimetterci è la creatività.