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Donne e islam: la gender jihad

Il movimento delle donne nel mondo islamico è diviso tra femminismo islamista da una parte, e femminismo laico e islamico, dall’altra, è diviso cioè tra donne che credono nella complementarietà di genere e quelle che credono nella parità. Quest’ultime portano avanti una Gender Jihad che cerca di salvare le donne, anche, dalla povertà. [continua da Donne e Islam: “divorzio all’islamica”…]

Prima una precisazione. Dice la Crusca: “fino a poco più di un decennio fa, islamista era un sostantivo indicante uno “studioso della cultura islamica”, mentre l’aggettivo islamico si riferiva genericamente al rapporto con l’Islam inteso sia come religione che come sistema politico, sociale e culturale (lo stesso significato di “musulmano” usato per le persone). Possiamo datare al 2002 il momento in cui islamista passa a indicare anche un ‘sostenitore (fanatico) dell’islamismo come unica religione, ovvero un fondamentalista islamico”.

Il femminismo islamista è quindi un “movimento globale animato da teologhe musulmane critiche sull’aspetto dell’uguaglianza dei generi”, dice Sara Borrillo, ricercatrice di Gender studies all’Orientale di Napoli. Un femminismo quindi completamente diverso da quello islamico che, insieme a quello laico (che pure esiste), sostiene la completa parità (che non significa essere letteralmente “uguali”, essendo chiaramente diversi, ma riconoscere i pari diritti di nascita, di vita, di scelte ecc. ecc.). Tra queste femministe c’è anche la biologa Asma Lamrabet, che sta portando avanti in Marocco quella che viene definita una Gender Jihad tra femminismo islamico e re-invenzione della tradizione, anche attraverso un blog. Il termine ormai spaventa ma jihad in arabo significa solo “sforzo (teso verso uno scopo”). Lei parla di “teologia della liberazione islamica”, che come quella cristiana (iniziata negli anni ’60), intende porre in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio islamico”, mostrando le donne come esseri indipendenti e non relazionali all’uomo.

Gender Jihad è la “capacità di operare una sovversione cognitiva in alternativa al monopolio maschile”. Crede (e chiede):

  1. Uguaglianza nella creazione (dal Corano: vi abbiamo creato da un unico soffio);
  2. Responsabilità umana del Creato;
  3. Integrità umana o pietà unico criterio di valutazione divina sugli uomini;
  4. Abolizione della qiwama (la superiorità degli uomini sulle donne), dna del patriarcato islamico;
  5. Ricontestualizzazione della predisposizione economica degli uomini nei confronti delle donne;
  6. Abolizione del principio per cui la testimonianza di una donna vale la metà di quella dell’uomo (in un processo per es.) che va contro l’etica coranica.

Ma non si tratta solo di Gender: è tutta questa intera e generalizzata discriminazione che rende la vita delle donne difficilissima, e non solo nei paesi islamici, tant’è che oggi si parla di “femminizzazione della povertà”. Il 75% dei poveri nel mondo sono donne. Per fortuna ci sono tanti strumenti che arrivano in aiuto di chi sa quanto è importante l’associazione (nonostante un certo stereotipo che vede sempre le donne contro le donne): “microfinanza, microcredito, prestiti di mutuo soccorso… sono molto diffusi tra le donne perché rispetto agli uomini tendono maggiormente a riunirsi”, sottolina Yasmine Di Pucchio dell’Orientale. Gli impatti positivi sono enormi: “aiuto economico, miglioramento delle condizioni abitative e generali, empowerment personale e sociale, maggiori occasioni per uscire – “le riunioni associative magari sono l’unica occasione per farlo” -, un modo per scambiarsi informazioni sulle dipendenze di figli e mariti, aiuto all’emancipazione, autostima vs vergogna, alfabetizzazione finanziaria, possibilità di andare in banca da sole…”

love_not_abusePurtroppo il risvolto della medaglia può essere molto grave, se non peggiore. Un caso di studio in Bangladesh rivelò che “il 70% delle donne dicevano che in seguito a questi programmi le violenze domestiche erano aumentate perché l’uomo si sente minacciato nel suo ruolo”. In alcuni casi si parlava anche di “indebitamenti che scatenano suicidi…”) “Insomma l’accesso al credito non risolve la povertà o le condizioni di vita di queste donne. Vedi anche la storia di alcune “nonne iraniane” che decisero di comprare un telaio per fare tappeti, ci lavorarono per un anno intero, ma poi non fecero nessuna vendita (perché i competitor ormai sono tanti e molto economici anche in Iran). Insomma, “l’aiuto concreto può arrivare solo se collegato a politiche più ampie su genere, supporto all’impresa e reti sociali…”

Il caso strano delle berbere… più o meno libere. Gli Amazigh sono i berberi del Nordafrica: si estendono dalla Libia al Marocco, toccando 10 Paesi. Oggi si preferisce chiamarli così, nella loro lingua, come già chiamavamo Tuareg i berberi del Sahara, rispetto alla parola “berbero” e basta, che, “soprattutto nel passato, ha avuto connotazioni negative”, e comunque definisce etnie anche molto diverse tra loro. Entrambi i termini comunque, Amazigh e Tuareg, significano “uomo libero”. Un po’ come i palestinesi, lottano da sempre per il riconoscimento della loro identità, nonostante siano autoctoni, ma in questo caso proprio “perché non sono considerati arabi”, dice Anna Maria Di Tolla, docente di Storia, lingua e letteratura berbera all’Orientale.

Questa richiesta identitaria viene dalle donne”, sono le Amazigh gli “agenti di cambiamento” in quelle zone, “perché sono loro a tramandare la lingua”. Il problema è la persistenza dello stereotipo del “buon musulmano”, che dice “l’Islam è la mia religione, l’arabo la mia lingua”, inducendo a guardare alle “altre lingue con sospetto”. La Primavera berbera nel 1980 fece conoscere al mondo i valori di questo popolo: “multiculturalismo, multilinguismo, laicità, tolleranza, democrazia. Ma il ruolo delle donne, il loro empowerment simbolico e culturale, non fu mai riconosciuto”. In seguito alle rivoluzioni del 2010-2011, la lingua berbera in Marocco è divenuta ufficiale come l’arabo (e l’Algeria l’ha seguito).  La cultura giovanile sta dando una nuova spinta, “le canzoni cantano, oggi la terra è sotto i nostri piedi, finalmente iniziano a sentirsi di nuovo liberi”.

In questo caso essere donne è stato un vantaggio, per Valentina Schiattarella e Valentina Serreli del Centro di Studi Berberi dell’Orientale, in viaggio tra Libia ed Egitto per visitare la comunità berbera che vive nell’oasi di Siwa (“una comunità di 25-28mila abitanti che non crea problemi al Governo”): grazie al loro “genere”, per la prima volta è stato possibile raccogliere le testimonianze delle donne. Perché i berberi non sono tutti uguali, i Siwani per es. sono ben diversi dai Tuareg: “a Siwa l’attivismo femminile è assente: la società è conservatrice e vige la segregazione e separazione sessuale, confermata anche dalle giovani. La stessa politica non esiste, poche votano. Le donne sono per la casa e i figli, gli uomini per il lavoro e il sostentamento, dentro e fuori, donna e uomo. I Siwani sono tutti musulmani e la cosa interessante è che “la globalizzazione è stata vista come l’avvento della salafia, la moralità esibita, per es. il coprirsi con il niqab (velo integrale). Veli ulteriori portano a uomini più soddisfatti e, secondo loro, una maggiore rigidità significa una religiosità più consapevole. Adesso ci si copre anche prima di sposarsi”.

oriente-occidente-300x201Diversi dagli altri berberi, diversi dai libici e anche dagli egiziani (Siwa è un’oasi del deserto libico che appartiene però all’Egitto, a 300 km dalla costa mediterranea).  Tra gli stereotipi raccolti: “le siwane sono considerate più lavoratrici delle egiziane, si occupano di tutto, e sono più morigerate e più velate… la città è vista come il luogo della perdita di moralità“. In realtà le donne “non possono spostarsi da Siwa da sole, c’è l’usanza di rimanere a casa che per loro significa protezione, e non reclusione: tutto arriva alla porta, ci pensano gli uomini, le donne non fanno neanche la spesa. Le nubili lavorano, è vero, ma non vengono viste di buon occhio (perché se lavorano evidentemente la famiglia ha problemi economici)”. Dichiarano le siwane: “Oggi coi computer gli sposi si vedono così tanto che quando si sposano non hanno più nulla da dirsi”, oppure “oggi si trovano scuse per non coprirsi”. I valori sono talmente diversi che il legame con le altre comunità berbere non è molto sentito, “perché loro sono siwani”.

L’unica cosa che possono fare le donne di Siwa è insegnare, basta che non ci siano contatti con gli uomini. L’istruzione è importante. Racconta una 16enne: “vado a scuola per insegnare ai miei figli, così saranno intelligenti come me”.

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