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La dualità di Luis Monti. Se l’abito fa il monaco

Il 30 luglio del 1930 Luis Monti da Buenos Aires ha il poco invidiabile ruolo di essere tra i primi grandi giocatori ad essere sconfitto contro ogni pronostico ai neonati mondiali di calcio. Quattro anni dopo stabilirà il record di giocare un’altra finale con un’altra maglia, quella Azzurra dell’Italia, che nel frattempo l’ha naturalizzato. Stavolta andrà diversamente, anche per altri motivi, ma questo non sminuirà i meriti di un mediano prototipo del cagnaccio che morde caviglie e polpacci degli avversari. Ma andiamo con ordine.

Dopo anni di tentativi, la Fifa riesce a organizzare un torneo internazionale fuori dall’alveo delle Olimpiadi e l’organizzazione è affidata all’Uruguay, in concomitanza con il centenario della sua indipendenza. A differenza di quanto accadrà nelle edizioni successive, non ci sono le qualificazioni, ma si partecipa ad invito, da confermare entro il febbraio del 1930. In dodici rispondono positivamente, la maggior parte dal continente americano: affrontare viaggi di quella portata non è facile. Niente africane, asiatiche e oceaniche, rispondono presente solo quattro europee, Francia, Belgio, Jugoslavia e Romania. Non c’è l’Italia, che pure era fra le papabili ospitanti e l’evento sarà ignorato dalla stampa sportiva, con il senno di poi in maniera miope. Chi invece non sottovaluta la competizione e quello che se ne può ricavare è l’Uruguay, che in appena 5 mesi realizza lo Stadio del Centenario, con ritmi di lavoro da indagine sindacale.

La prima partita ufficiale è fra Messico e Francia, per la cronaca vinta dai transalpini 4-1, ma in finale arrivano l’Argentina, che nel corso del torneo è la più spettacolare, e l’Uruguay, solido e concreto. E nell’ultimo atto, a sorpresa, Davide batte Golia 4-2, dopo essere stato anche in svantaggio 1-2 fino a poco più di mezz’ora dalla fine. Tra i fenomeni argentini, votati all’attacco, spicca fino a quel momento l’elemento di equilibrio: Luis Monti, 29 anni, fisico tarchiato, mezzi tutt’altro che gentili (in campo) che gli valgono il soprannome di doble ancha, armadio a due ante, a sottolinearne la prestanza fisica, mentre la stampa francese gli affibbia il nomignolo Dillinger, tanto per gradire. All’epoca Monti gioca nel River Plate, uno dei club argentini più importanti, ma dopo il mondiale la carriera sembra finita.

Monti sbaglia il gol del possibile 3-1 che avrebbe chiuso la partita e il suo stesso pubblico lo critica aspramente, invitandolo a cambiare mestiere, cosa più facile di quei tempi perché non esisteva il professionismo nel calcio. Risolto il contratto con la sua squadra, torna alle radici, o meglio quelle dei genitori, emiliani emigrati in Sudamerica. Apre un negozio di pasta fresca, ma non dura. I lottatori come lui difficilmente sanno stare fuori dal campo e trovano facilmente qualcuno che creda in loro.

Uruguay e Argentina scendono in campo per la finale dei mondiali 1930
Uruguay e Argentina scendono in campo per la finale dei mondiali 1930

La Juventus lo acquista nel 1931, nonostante il periodo di inattività agonistica, che sommato a quel tipo di impiego lo ha lasciato decisamente sovrappeso. Pazienza, ci si può rimettere in sesto allenandosi il doppio, il triplo se serve, perché la soddisfazione data dal calcio supera la fatica di perdere peso sopra i trent’anni. Fa parte del suo carattere, di lavoratore taciturno. E poi c’è un’assoluta voglia di riscatto per quella partita di metà estate a Montevideo.

All’epoca il tesseramento stranieri è più restrittivo, ma Monti ha i genitori nati in Italia e la naturalizzazione non è un problema. Al contrario invece, era permesso giocare con due Nazionali diverse, ora possibile solo in caso di secessioni o unione fra Stati. Il regime fascista nel frattempo ha capito che può sfruttare i mondiali a proprio vantaggio, economicamente e per la propaganda nazionalista, e si è aggiudicato l’organizzazione della Coppa Rimet edizione 1934. Monti viene convocato, a dispetto degli ormai 33 anni. È ancora bravo sì, ma anche un simbolo di ius sanguinis. C’è addirittura chi maligna un intervento diretto di Mussolini, che dopo i mondiali 1930 avrebbe pagato uomini di fiducia per convincere i tifosi ad abbattere l’animo di Monti, farlo decadere per poi riportarlo in Italia a prezzi più vantaggiosi. Ma forse è troppo anche per il più accanito dei dietrologi…

L’Italia fascista investe molto sui mondiali, giocati in ben otto città. E ha praticamente l’impunità concessa dagli arbitri, troppi i favori per non alimentare sospetti, per di più in un’epoca con poche telecamere. Monti può esprimere al meglio il proprio marchio di fabbrica, il gioco duro. È nel suo elemento. In semifinale infortuna il talentuoso attaccante austriaco Sindelar, in finale stessa sorte per il cecoslovacco Svoboda. L’Italia e Monti sono campioni, forse ce l’avrebbero fatta anche senza favoritismi, chissà. Ma non conta più di tanto.

È l’apice della (seconda) carriera di Luisito, anche a dispetto della situazione politica. Altri oriundi come Orsi tornano a casa, per protesta contro il colonialismo italiano. Ma non Monti, che continua a giocare fino a 37 anni, quando la guerra è alle porte. Il ritorno nella sua Argentina avviene nel 1947, dopo che nel conflitto perde la casa e rischia seriamente di fare la fame. Prova la carriera da allenatore ma senza ripetere le gesta del Monti calciatore, finché, da pensionato, si dedica al suo orto, lontano da tutto e dagli scandali che lo hanno toccato da vicino.

La nazionale italiana ai mondiali di casa del 1934
La nazionale italiana ai mondiali di casa del 1934

Spaccare le gambe degli avversari è cosa buona e giusta, l’omosessualità no. Scalfirebbe la granitica virilità fascista – ma non è stato così solo sotto la dittatura, anzi. Girano voci di rapporti di Monti con alcuni dirigenti della Juventus e con l’allenatore Carcano (per questo licenziato), troppe reputazioni ne risentirebbero e tutto viene insabbiato. Voci sull’omosessualità di Monti verranno anche dalla testimonianza – postuma – di Felice Borel, suo compagno di squadra alla Juventus, che parlerà di un Monti ubriaco e mezzo nudo a una festa, seriamente deciso a “conquistarlo” (anche se forse il termine non è proprio quello più appropriato). Non che tutta la vicenda sia importante, ma per capire quanto ci si dovesse nascondere.

Luisito muore a 82 anni, nel 1983, nella sua Escobar, sobborgo di Buenos Aires, lasciando una vita segnata dal dualismo. A partire dal soprannome doble ancha, dai due mondiali giocati con due Nazionali e con due esiti differenti, dalle sue due “carriere” in Argentina e in Italia, ma anche dagli opposti di un uomo silenzioso e duro ma al tempo stesso gentile e buono, distruttore e spesso finalizzatore in campo, affondato e risorto. Primo dei grandi sconfitti e “secondo” tra i campioni vincenti. In due parole (quante sennò?) Luis Monti.


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