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Vita da (under)dogs

L’abusato motto dell’inventore delle Olimpiadi moderne Pierre de Coubertin, “l’importante non è vincere, ma partecipare”, ha assunto in qualche caso significato reale. E poche occasioni come i Giochi invernali di Calgary del 1988 hanno visto applicarsi il noto detto, con partecipanti che per la loro assurdità, più che per i risultati, sono passati alla storia sportiva. “EddieEdwards e la nazionale giamaicana di bob hanno ispirato film e sono diventate icone degli “underdog”, gli sfavoriti, non vincenti nella fase finale ma sicuramente vincenti solo per il fatto di esserci. Sempre e comunque contro ogni pronostico.

Il clima britannico è proverbiale per la pioggia e per i discorsi di gentlemen con bombetta e ombrello che, in assenza di altri argomenti, parlano del tempo. Nonostante le nevicate, che pure accompagnano il meteo oltremanica, le località sciistiche non hanno particolare fama, di conseguenza ne risentono gli sport cosiddetti invernali. È il 1986 quando un inesperto Michael Edwards, pure appassionato di sci, si mette in testa di rappresentare il suo Paese alle prossime Olimpiadi canadesi, ad appena due anni dall’appuntamento. Impossibile, ma Eddie sa una cosa: non ha concorrenza, letteralmente, nel salto con gli sci. Addirittura l’ultima partecipazione del Regno Unito è datata 1929.

Ergo, la qualificazione è garantita anche per un novellino che approccia questa disciplina ormai ventitreenne, in sovrappeso per gli standard e con occhiali spessi sotto la maschera, per via dell’ipermetropia. Però Michael detto Eddie, storpiatura del cognome, prende la sua missione molto seriamente, si allena in strutture professionistiche a Lake Placid, Stati Uniti, finché ha fondi, poi per abbattere i costi si fa ospitare da un ospedale psichiatrico finlandese, dove lavora anche come intonacatore. Nel 1987 partecipa ai mondiali, dove arriva 55°, ma tanto basta per staccare il biglietto per Calgary.

Eddie Edwards
Eddie Edwards

Qui diventa un mito, per il suo aspetto buffo, perché è un signor nessuno fra grandi campioni. È ultimo sia nel salto dai 70 che dai 90 metri, ma stabilisce comunque il record britannico con 73 metri e mezzo. Diventa un personaggio, apprezzato per la simpatia, è richiesto dai media più dei fenomeni veri, ma rischia di far diventare questo sport una macchietta. Almeno secondo i vertici, che stabiliscono così dei requisiti minimi per qualificarsi. Non vogliono un altro “Eddie” Edwards, soprannominato “the Eagle”. Eppure nella cerimonia di chiusura viene menzionato perfino da Frank King, del comitato organizzatore: “avete infranto record mondiali, stabilito i vostri personali. Qualcuno si è perfino librato come un’aquila”, dichiara scatenando l’ovazione del pubblico.

La breve parabola di Edwards finisce lì, non riuscirà ad arrivare ad Albertville nel 1992, né a Lillehammer nel 1994 o a Nagano nel 1998. Ma il suo nome, in qualche modo è rimasto indelebile. Ha fatto un po’ di tutto parallelamente all’attività di muratore, libri, canzoni, programmi radiofonici, il commentatore in tv, pubblicità, fino alla laurea in legge nel 2003. Nel 2008 si è svolta a Calgary una grande rimpatriata per i 20 anni dalle Olimpiadi, oltre a Eddie the Eagle c’era un altro gruppo che all’epoca e per gli anni a venire ha destato grande interesse. La nazionale giamaicana di bob.

I giamaicani del bob pronti alla partenza
I giamaicani del bob pronti alla partenza

Ora, non serve essere minimamente esperti di bob o di sport per capire l’anomalia di sei caraibici sulla neve. Bastano rudimenti di geografia. Eppure qualcuno ci vide lungo. Anche qui inizia tutto a pochi anni dal fatidico evento, quando George Fitch e William Maloney, affaristi con interessi in Giamaica, si trovano nell’isola del capitano Henry Morgan e assistono a una gara di carretti. Forse sarà stata l’influenza delle erbe mediche tanto care a Bob Marley, fatto sta che i due imprenditori hanno un’immediata associazione di idee con il bob, che altro non è che un carretto, ma sul ghiaccio, che lì avranno visto a malapena nei cocktail.

Fitch e Maloney selezionano la squadra, composta da Devon Harris, Dudley Stokes, Michael White, Freddy Powell, Clayton Salomon e Allen Casswell. Anche per loro vengono scelti gli impianti di Lake Placid, ma è sotto la guida dell’allenatore austriaco Sepp Haidacher che si compie il miracolo. La Giamaica gareggia sia a coppia che a quattro, dove arriva nella terza manche con un onorevole 21° posto provvisorio, finché i nostri eroi cadono a pochi metri dal traguardo, tagliato mestamente a piedi. L’esperienza ha aperto a diversi emuli connazionali, che hanno partecipato costantemente ai Giochi fino al 2002, con l’apice del 14° posto nel 1994 a Lillehammer, ma anche di altri Paesi insospettabili come Messico, Samoa, Porto Rico, Isole Vergini, Antille Olandesi e Trinidad e Tobago.

“L’importante non è vincere ma partecipare”, diceva de Coubertin, che chiudeva l’aforisma con il meno famoso “la cosa essenziale non è la vittoria, ma la certezza di essersi battuti bene”. Altrimenti né Edwards né i ragazzi del bob non sarebbero diventati, a loro modo, leggende.

Eddie Edwards in azione

L’avventura giamaicana a Calgary

  


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