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Selezione all’ingresso

Quasi tutto il mondo politico italiano (e non solo) ripete da tempo lo stesso concetto. Chi scappa dalle guerre deve essere accolto, i “normali” migranti economici devono essere respinti. La divisione è troppo netta e semplificata per poter rispecchiare fedelmente la realtà. Infatti non c’è mai un’unica causa che spinge a lasciare il proprio Paese, ma un intreccio di instabilità politica ed economica, con violazioni pesanti dei diritti umani. Sono tutti fattori concatenati, che come conseguenza presentano forme diverse di conflitto sociale. Stabilire chi sia meritevole o meno di protezione internazionale è un esercizio esclusivo e che appunto non tiene conto della complessità dei fenomeni geopolitici. Sembra più un modo per dire “non siamo razzisti, salviamo chi viene da aree di guerra, ma gli altri se la vedessero da soli”. Cioè strizzare l’occhio a ragionamenti di pancia tendenti alla xenofobia salvando la faccia dal punto di vista uman(itari)o.

Come sempre, i problemi sono trattati in ottica emergenziale, soprattutto a partire dalle primavere arabe. Qualche anno fa, in via eccezionale, veniva favorito l’ingresso di tunisini ed egiziani, poi si è passati a siriani ed iracheni, vessati dallo Stato Islamico. Tutto giusto, ma come si stabilisce cosa è guerra? Mezza Africa è devastata da guerre civili, dalla Libia al Mozambico passando per la Nigeria, ma anche in Paesi dove ufficialmente non c’è conflitto, i Governi perpetrano crimini contro la popolazione. Ovviamente l’economia non è avulsa dal resto, anzi. La maggior parte degli scontri fra fazioni sono per il controllo delle (poche) risorse. Come nel Niger, Sato desertico che può contare solo sull’estrazione di uranio. Pakistan, BangladeshFilippine e Indonesia invece vedono un mix di autoritarismo, focolai di terrorismo e catastrofi naturali che puntualmente mettono in ginocchio la Nazione. E il Messico? La guerra tra (e ai) cartelli della droga provoca migliaia di morti ogni anno e il sommerso, si sa, non è certo un toccasana per l’economia. E via discorrendo, i casi sono eterogenei in tutto il globo.asilo-politico-rifugiati-

Come scrivono il giornalista Stefano Liberti e l’analista politico Emilio Ernesto Manfredi su Internazionale, la maggior parte degli africani che punta sulla rotta libica per sbarcare in Europa sono quelli con abbastanza soldi da spendere nel viaggio. Sanno di non poterli investire nel sistema socio-politico-economico corrotto del proprio Paese, perché finirebbero col perdere tutto. E allora meglio rischiare. Ma distinguere fra questi e chi scappa dalla guerra è “pericoloso”, perché divide migranti “buoni” dai “cattivi”, quelli che vengono per “rubarci il lavoro”, che già manca per colpa della crisi.

Le forme di protezione superano la dicotomia rifugiati/migranti economici. Oltre alla protezione internazionale prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951, quella appunto dei richiedenti asilo la cui domanda è stata accettata per le persecuzioni subite in patria, ci sono la protezione sussidiaria e quella umanitaria. La prima garantisce un soggiorno di 3 anni ed è concessa a chi ha fondati motivi per ritenere che il ritorno a casa possa comportare gravi conseguenze. La seconda ha un permesso di un anno ed è data a chi non è riconosciuta la protezione sussidiaria, ma gli vengono comunque riscontrati “motivi umanitari”, in generale situazioni di vulnerabilità, anche economica, come l’assenza di mezzi di sostentamento. Stando a questa classificazione, in Italia lo status di rifugiato è stato concesso solo al 6% dei richiedenti, il 18% ha avuto protezione sussidiaria, il 25% umanitaria. Le provenienze principali sono Nigeria, Mali, Gambia, Pakistan e Senegal.

downloadLa “selezione all’ingresso”, come in certe discoteche, riguarda un po’ tutta Europa. Paesi come la Svezia favoriscono i rifugiati veri e propri, infatti sono molto forti le comunità di somali, iracheni e siriani, ma ci sono percentuali alte di respingimenti. L’Europa meridionale invece è più permissiva con i cosiddetti migranti economici, ma è anche un motivo geografico, di prossimità con Africa del nord e Medio Oriente. Dettagli che contano poco o nulla solo per Chiesa e sinistra (curiosa alleanza): altrimenti si farebbe una classifica fra migranti di serie A e B. “La migrazione nasce dalla volontà di cambiare la propria condizione in meglio”, sottolinea Oliviero Forti, responsabile Caritas. “Non possiamo chiudere gli occhi davanti alla miseria, frutto della globalizzazione e dello sfruttamento attuato per anni dai Paesi del nord del mondo. Dobbiamo guardare agli individui e non agli status”.

Chiaro e semplice, dovrebbe esserlo anche per quelli che si appellano al “mantenimento della tradizione cristiana contro l’invasione islamica”, ma che fanno l’opposto del messaggio (sempre cristiano!) di accoglienza e solidarietà verso il prossimo, tipo buon samaritano. Dovrebbe, no?

 


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