Quando si dice che un tatuaggio dura “per sempre”, lo si intende veramente. Operazioni di rimozione a parte, i ritrovamenti di mummie tatuate hanno mostrato come l’inchiostro si sia conservato meglio della pelle, sopravvivendo millenni oltre la morte della persona stessa. Certo, adesso le procedure di imbalsamazione sono più rare, quindi, di fatto, il “per sempre” ha finito per coincidere con il ciclo vitale di chi ha un tatuaggio, finché decomposizione non sopraggiunga. Fino al 24 luglio il Macro di Testaccio ospita la mostra Tattoo Forever, esposizione che ripercorre le evoluzioni di quest’arte a partire dall’alba della civilizzazione.
Un po’ come la scrittura, i tatuaggi sono comparsi più o meno contemporaneamente in quasi tutte le aree del mondo, dall’Egitto al Perù, dagli altipiani dell’Asia centrale alla Groenlandia. Lo testimoniano non solo le mummie sopra citate, ma anche i ritrovamenti di rudimentali strumenti adatti a tatuare, ricavati da ossa e denti di animali e da spine di piante. La simultaneità e l’ampia diffusione sono la prova che non ci sia stato un epicentro unico che abbia inventato e sparso il verbo, la condivisione di informazioni a così tanta distanza non sarebbe stata possibile 5 mila anni fa. Ornarsi il corpo è stata dunque una sorta di esigenza espressiva istintuale, come le altre forme di arte e la comunicazione nel senso più ampio.
Per molte culture il tatuaggio era un segno di identità etnica, religiosa, di ceto sociale, oltre che il classico rituale di passaggio dall’infanzia alla vita adulta, impraticabile senza provare dolore. Le donne Tharu del Nepal tradizionalmente si tatuano le mani, come ornamento finalizzato a servire il tè. Gli intoccabili Ramnami dell’India si scrivono sul volto il nome del dio Ram. Diverse popolazioni del Myanmar distinguono, a seconda dei segni, il loro status di guerrieri, cacciatori di teste, appartenenze a determinati clan.
In occidente i tatuaggi hanno seguito vicende più alterne. Nella Grecia e Roma antica erano inizialmente avversati, roba da barbari, schiavi e prigionieri di guerra. Poi il contatto con altre culture ha portato a maggiore tolleranza. Il cristianesimo accettava i tatuaggi dei pellegrini che raffiguravano immagini sacre. Fu capitan James Cook, a cavallo fra Settecento e Ottocento, che introdusse ed espanse in Europa il termine (e il concetto) di tattoo, derivato dal polinesiano tatau, che vuol dire battere, marchiare, dall’onomatopea delle bacchette che incidono la pelle. E se inizialmente la diffusione dei tatuaggi fu trasversale, nel giro di un secolo si collegò a marinai ed emarginati, complici le teorie senza fondamento scientifico di Cesare Lombroso, tuttavia accettate dalla maggior parte degli psicologi: i tatuati sarebbero stati deviati, psicopatici, criminali, omosessuali.
Contemporaneamente si lavorava alla migliorazione delle tecniche per tatuare, il prototipo dell’ago moderno sarebbe uno dei tanti brevetti di Thomas Edison, anche se l’utilizzo primario era per le stampe. Fu Samuel O’Reilly a pensare, alla fine dell’Ottocento, che questa specie di penna elettrica poteva essere usata per iniettare permanentemente l’inchiostro e a diventare uno dei primi artisti del settore. Ma ci volle ancora molto tempo prima che il tatuaggio venisse sdoganato. Fino agli anni Settanta-Ottanta del Novecento era visto come un segno di ribellione alle regole della società.
Il resto è attualità, finalmente anche in Occidente il tatuaggio ha perso l’alone di trasgressione per arrivare al riconoscimento artistico che soprattutto in Asia ha sempre avuto, che sia puramente estetico o racconti una storia. I rischi, anzi, ora sono che l’eccessiva popolarità abbassi gli standard qualitativi, che ci si improvvisi tatuatori come fosse un lavoro qualsiasi, magari redditizio. Dimenticandosi che, fino alla morte o anche oltre, nel bene e nel male, un tatuaggio è “per sempre”. Come i diamanti, ma senza che nessun bambino venga sfruttato.