Definire Ascanio Celestini e il suo lavoro non è cosa facile. Possiamo descriverlo come attore, regista, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, umorista, ma in ogni caso fa categoria a sé, con il suo stile personalissimo. Così provare a parlare del suo ultimo film, Viva la sposa, (ri)proiettato nell’ambito della rassegna Trastevere Rione del Cinema organizzata dal Cinema America Occupato, è probabilmente esercizio inutile. Per capirlo, banalmente, va visto.
Più che una trama c’è il racconto di un segmento di città, la periferia romana tanto cara ad Ascanio da Morena. Siamo al Quadraro Nuovo, vicino Cinecittà. Tutto ruota intorno a Nicola, interpretato da Celestini, e al bar di quartiere, ritrovo dove confluiscono i personaggi più disparati. Nicola è un attore che intrattiene i bambini alle feste raccontando filastrocche, alcolizzato ma sempre pronto a smettere (senza riuscirci), forse padre di Salvatore, figlio di Anna, una prostituta di zona.
Poi ci sono Sabatino “Sasà”, che truffa le assicurazioni fingendo incidenti, il carrozziere l’Abruzzese, la ragazzina ucraina amica di Salvatore, Sofia (Alba Rohrwacher), vecchia fiamma di Nicola. E la sposa del titolo, figura quasi onirica, famosa attrice americana che gira l’Italia in viaggio di nozze, fino ad arrivare, per contrasto, a L’Aquila. Bella, ricca, l’opposto del mondo di Nicola e gli altri, proprio per questo metafora della fuga dalla realtà. O almeno è una possibile interpretazione, poi ognuno può dare la sua. Anche che non esista veramente, o che sia addirittura una forma divina, chissà.
Tema che accomuna i personaggi, poveri ma mai miserabili, è la consapevolezza di non essere consapevoli, “non si pongono il problema di quello che succederà il giorno dopo”, spiega Celestini, “altrimenti correrebbero ai ripari”, ogni azione riflette “l’opportunità nel presente. Per questo sono come burattini, come Pinocchio, che vive calato solo nell’istante che sta vivendo”. I più attenti hanno notato l’omonimia del protagonista con quello de La pecora nera, penultimo film diretto da Celestini. Questo perché lui, nella costruzione dei suoi personaggi, parte da un caposaldo. Identificando una tipologia, un prototipo, appunto un Nicola, già sa come questo si comporterà, cosa farà, cosa pensa, i suoi gusti, semplicemente vivrà diverse situazioni in diversi film, ma è come se fosse sempre la stessa persona.
Dopo La pecora nera Celestini parla di un’altra istituzione costrittiva, anche se fa più da contorno. La pellicola precedente ruotava intorno al manicomio, stavolta c’è il carcere, solo citato, anche se i riferimenti alla terribile vicenda di Giuseppe Uva e alla telefonata all’ambulanza da parte dell’amico sono chiari e forti. Ad accomunare manicomi e prigioni c’è la violenza, contro la quale, da cittadini semplici, siamo impotenti. “Si deve spezzare questa catena dall’interno, chi ci lavora deve prendere coscienza di certi comportamenti, a volte eseguiti inconsapevolmente”.
“Nel teatro greco il pubblico era pagato per assistere agli spettacoli, dovremmo tornare a quell’idea”, la provocazione di Celestini in una serata comunque gratuita – e sarà così fino al 1 agosto. Il momento romano non è dei migliori, quasi tutti i centri di diffusione della cultura a prezzi popolari, il teatro Valle, il circolo Dal Verme, l’Esc, l’Angelo Mai, sono stati sgomberati o sono a rischio, nel nome di una legalità cieca, incapace di valutare situazioni e funzionalità di un’organizzazione. Incapace di distinguersi da disonestà e corruzione.