Il linguaggio è probabilmente l’elemento che più di altri ha una funzione unificatrice. Uniformare i codici di comunicazione è infatti il primo collante delle varie comunità che popolano il pianeta, anche più della prossimità geografica, che altrimenti resterebbe fine a sé stessa. È ben noto come da pochi ceppi linguistici si siano sviluppati infiniti idiomi e dialetti e come questi siano sempre fluidi, in costante evoluzione, parallelamente ai nuovi bisogni che le società sempre più complesse propongono. Per fare un esempio, in inglese è stato coniato un verbo che sintetizza “cercare su Google”, il più famoso motore di ricerca su internet: to Google, che in italiano corrisponderebbe a “Googlare”. La diffusione esponenziale e capillare dei media ha contribuito ad arricchire (più o meno) il linguaggio. L’Osservatorio neologico della lingua italiana ha pubblicato un volume secondo cui, a cavallo del nuovo millennio, i quotidiani nazionali avrebbero introdotto nel vocabolario corrente oltre cinquemila parole.
Nella sua lunga carriera iniziata addirittura prima della Seconda Guerra Mondiale, da diciottenne, Gianni Brera ha rivoluzionato il lessico sportivo/calcistico introducendo termini mai sentiti prima, come centrocampista (c’era il mediano), contropiede (di derivazione greca, l’anti-pous era la seconda fase di danza nelle tragedie), goleador, libero (il difensore non in linea ma più arretrato), melina (passaggi per perdere tempo), spogliatoio (come luogo figurato di retroscena delle partite) e tanti altri gergali.
Altro sintomo dell’adeguamento ai tempi è l’uso del lemma “badante”, oggi tanto comune, che indica un lavoratore o più frequentemente lavoratrice domestica, nell’immaginario collettivo immigrata. Per la prima volta “badante” apparve riportato dal Corriere della Sera, ma leggenda vuole che l’inventore sia stato Umberto Bossi. Anche “no-global” affonda le radici nella stampa italiana, per indicare i movimenti di protesta contro il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 1999 a Seattle. Così come “bioterrorismo”, nonostante la produzione di armi chimiche non sia così recente.
Mafia, camorra, ‘ndrangheta sono locuzioni di copertina, diffuse per il grande pubblico, ma che fanno ridere gli affiliati a queste organizzazioni. Tra di loro nessuno si chiama mafioso o camorrista, i veri nomi sono Cosa Nostra, Sistema, Santa o Società Maggiore. A Indro Montanelli dobbiamo “radical chic”, che definisce persone con un’appartenenza di ceto più elevato delle ideologie professate. A dire il vero lui lo importò solamente, nel 1972, il padre vero è comunque un altro giornalista, l’americano Tom Wolfe.
Più recente è la diffusione di “femminicidio”, coniato in Messico dalla ricercatrice e psicologa Lara Tavolilla ma diventato virale grazie ai media. Controverso l’uso di “inchino”, la manovra che ha reso tristemente famoso il comandante Francesco Schettino, responsabile del naufragio della Concordia. L’ammiraglio Mario Palombo, ormai in pensione, dice alla stampa: “l’inchino non si chiama così, si fa solo in chiesa”. Meglio parlare, nel glossario nautico, di “passaggio ravvicinato”. L’uso, già di per sé improprio, è stato esteso alle processioni religiose che deviano sotto le abitazioni di boss agli arresti domiciliari, per rendergli omaggio.
E qui arriviamo a un punto dolente, perché a tanta fantasia corrisponde poca voglia di inventare e si arriva a copiare. Lo scandalo Watergate di Richard Nixon è stato ripreso come Sexgate per Bill Clinton e come Datagate per le rivelazioni dell’ex agente Cia Edward Snowden. A casa nostra da Tangentopoli, spartiacque (fittizio) fra prima e seconda Repubblica, sono derivate Calciopoli (partite truccate), Parentopoli (favoritismi nelle cariche pubbliche) e Vallettopoli (corruzione e concussione sessuale). O ancora Wikileaks e Vatileaks, prima la diffusione di documenti riservati da parte di Julian Assange, poi la stessa cosa ma limitata allo Stato Pontificio.
Ma in fondo anche copiare è un’arte bisogna saperlo fare con stile.