Le radici di fascismo e comunismo sono totalmente diverse, antitetiche se vogliamo. Il comunismo le affonda, come noto, ne Il Capitale (Das Kapital) di Karl Marx, manifesto della lotta di classe, della liberazione delle masse oppresse di lavoratori proletari, della fine dello Stato così come lo conosciamo e dell’internazionalizzazione. Il fascismo, anche se ha presentato aspetti sociali, non ha mai avuto mire tanto rivoluzionarie ed è stato una sorta di evoluzione delle teorie del nazionalismo e reazione antiproletaria della borghesia contro la degenerazione della società di massa immatura per la democrazia. In comune, il tentativo di organizzare la società secondo un modello di partito unico totalitario, aggettivo riconosciuto al nazismo e non ufficialmente al fascismo, per la presenza – in realtà fittizia – della monarchia e del Vaticano.
Se si considerano la violenza fascista fra le due guerre (“e allora le Foibe?”) e gli scontri negli anni di piombo, con decine di morti da entrambe le fazioni, sembra assurdo pensare a convergenze fra due sistemi così incompatibili. Eppure nell’immediato secondo dopoguerra frange estreme di ali già estreme hanno progettato un sodalizio per non far cadere l’Italia nei blocchi capitalista o sovietico e intraprendere la terza via. Le basi: antiborghesia e antiamericanismo. Sappiamo bene come la Storia abbia seguito un altro corso, ma il fenomeno del fascismo rosso ha costituito una peculiarità nel panorama politico nella seconda metà degli anni Quaranta del Novecento.
Anche il Movimento Sociale Italiano, erede del Partito Fascista, aveva diverse correnti al suo interno, tra cui quella legata alla rivista Pensiero Nazionale di Stanis Ruinas, pseudonimo di Antonio Giovanni De Rosas, saggista di punta del sovversivismo mussoliniano ed ex repubblichino (cioè aderente alla Repubblica di Salò). Stanis Ruinas credeva che la Democrazia Cristiana usasse l’anticomunismo come scusa per instaurare una dittatura clericale, entrare nel blocco capitalista filoamericano e tarpare l’ascesa delle classi lavoratrici. Contemporaneamente criticava la maggioranza del Msi, “traditori” che supportavano le forze dell’ordine del ministro dell’Interno Mario Scelba. La proposta era dunque di unire tutte le forze democratiche, repubblicane e socialiste contro Dc e Vaticano, per restituire all’Italia il suo ruolo di mediatrice fra Occidente e Oriente.
Pensiero Nazionale fu fondata nel maggio del 1947 dopo l’incontro fra Ruinas e vertici del Partito Comunista – che fu finanziatore della rivista – nella storica sede in via delle Botteghe Oscure. Le parole d’ordine erano “libertà, Repubblica e indipendenza nazionale”, ma l’opera di persuasione non ebbe molto successo, né all’interno del Msi né fra le altre forze, nonostante l’identità di vedute con l’Alleanza Giovanile di Enrico Berlinguer. Dopo l’arresto di Ruinas nel 1950, per istigazione alla rivolta armata contro i poteri costituiti, il progetto rallentò per riprendere quota nel 1953, ma Pensiero Nazionale non riuscì a presentarsi da solo alle elezioni, finendo per confluire in Alleanza Democratica Nazionale, formazione guidata dal liberale Epicarmo Corbino e che vide l’adesione di diversi indipendenti l’antifascista Francesco Saverio Nitti. Adn ottenne solo 155 mila voti, utili comunque ad impedire il raggiungimento del premio di maggioranza per la Dc, nell’anno delle votazioni con la legge Scelba, nota come legge truffa.
Sembra strano pensare a come già dal ’47 c’era chi considerasse il Msi appiattito sulla Dc, con gli occhi di oggi (e forse anche di quasi tutti di allora) era ancora un movimento fortemente neofascista. Ruinas ha previsto con 60 anni di anticipo il percorso che Alleanza Nazionale fece con Forza Italia. E mentre Adn fallì, il Msi cominciò ad accrescere i consensi.
Non essere “mainstream” non paga mai abbastanza.