“Stereotipi, pregiudizi e discriminazioni sono spesso concepiti come correlati, anche se esprimono concetti differenti: gli stereotipi sono una componente cognitiva, è come il nostro cervello normalmente gestisce le informazioni, spesso senza una vera e propria consapevolezza; il pregiudizio è la componente affettiva di questo “stereotipare”; infine, la discriminazione è la parte comportamentale che segue le reazioni pregiudiziali”.
Dunque fermarsi allo stereotipo e dargli la possibilità di essere flessibile (Be flexible! nessuna informazione è oro colato), è l’azione-chiave, prima di diventare persone piene di pregiudizi o, peggio, discriminatorie.
Il giudizio in sé, infatti, non è un problema, quello esiste da sempre, nel bene e nel male, da quando gli esseri umani si relazionano. È normale “giudicare”, se questo significa “farsi un’idea” di quello che si ha di fronte, della situazione che stiamo vivendo, nuova o vecchia che sia.
Il problema è che, giudicando ogni giorno, e ascoltando le persone che giudicano attorno a noi, conosciamo il giudizio e sappiamo perfettamente quanto può essere cattivo e spesso immotivato, fino a scatenare di colpo, nel momento in cui venga rivolto a noi, tutte le nostre incapacità, debolezze, paure. La nostra rabbia. Un altro giudizio, infatti, di proporzioni molto ampie, induce le persone a trattenere certe emozioni, le negativizza, tentando di fatto di nascondere la realtà (che un vecchio modo di dire già sapeva), e cioè che nessuno è perfetto, e tutti dovremmo essere più indulgenti con noi stessi, per primi, e poi, in modo naturale, con gli altri.
Il “problema” del giudizio, quindi, è che è strettamente legato alla propria autostima (o sarebbe meglio dire amore di sé): se ricevuto, talvolta può fare male (e quindi lo prendiamo male). Significa che lo stiamo subendo, perché è stato in grado di smuoverci qualcosa dentro, rivelando almeno una mezza verità su noi stessi. Se fatto, e non disponibile al cambiamento, è ciò che incancrenisce il cervello su convinzioni monotone (cioè letteralmente a unico colore) che non accettano sfumature, dettagli e assurdità, aspetti che, in ogni caso, da sempre compongono la realtà.
“Giudicare facile” non è mai stata la soluzione, ma è ciò che struttura lo stereotipo, la nostra prima bussola per vivere nel mondo.
In sociologia è stato Emile Durkheim, dalla fine dell’Ottocento, a iniziare a diffondere l’idea che la cultura (e quindi lo stereotipo) ha una propria funzione che aiuta l’individuo a muoversi nella società. La sua concezione della cultura, infatti, è strettamente connessa con la sua dimensione coercitiva, “poiché quest’ultima impone ai singoli le proprie leggi e i propri modelli”, una visione che però ha anche una funzione di integrazione positiva. La cultura è “la coscienza collettiva, fatta di rappresentazioni, ideali, valori e sentimenti comuni a tutti gli individui che la compongono; essa precede l’individuo, lo domina, gli è esterna e trascendente. La cultura, in questo senso, funge da bussola per il giusto orientamento degli individui, poiché crea quei concetti e quegli stereotipi che aiutano l’individuo a orientarsi in ogni situazione”.
In antropologia, spesso gli stereotipi sono analizzati come aspetti del simbolismo dei rapporti sociali e di gruppo e possono riflettere e perpetuare determinate divisioni sociali (come tra uomo e donna: “le professioni associate al genere, per esempio, che sono chiare ai bambini fin dalla tenera età, vedendosi rappresentati sempre e solo in alcuni ruoli e attività, contribuisce alla segregazione professionale di genere: gli uomini scartano alcune professioni, le donne hanno difficile accesso ad altre”). Le ricercatrici Alice Eagly e Valerie Steffen già dal 1984 sottolineano come gli stereotipi sessuali influenzano la divisione sociale del lavoro, con donne “communal” (“per la comunità”, attributo coerente con il loro ruolo domestico e di cura) e uomini “agentic” (“che agiscono” in modo coerente con il loro ruolo di lavoratori).
In psicologia, secondo Susan Fiske, esistono quattro tipi di stereotipi a seconda del livello di calore e competenza percepiti sulla persona che si sta giudicando.
“Proprio come per tutti gli animali, anche gli uomini hanno bisogno di determinare in poco tempo se l’altro è amico o nemico. Per questo chi è percepito come caldo e competente elicita emozioni positive (ammirazione), mentre chi non è percepito né come caldo né come competente determina emozioni uniformemente negative (disprezzo). Coloro i quali sono classificati come caldi ma non competenti o viceversa, elicitano prevedibilmente reazioni comportamentali e affettive ambivalenti: rispettivamente, il pregiudizio invidioso (i membri dell’outgroup sono giudicati competenti, ma privi di calore) e quello paternalistico (i membri del gruppo target sono percepiti come caldi, ma incompetenti, esso è tipico dei dominanti nei confronti di subordinati percepiti come non minacciosi)”.
Una ricerca di qualche anno fa, sempre in ambito psicologico, rivelò come gli stereotipi prendono forma.
In una sorta di “gioco del telefono” in cui si assegnavano attributi a ipotetici alieni, si è visto che con il procedere della catena, “le persone sovrastimavano le similitudini tra alieni della stessa categoria, tendendo inoltre a pensare che caratteristiche fisiche simili, condividono anche attributi (di personalità) simili”. Nello stereotipare le cose o le persone, quindi, non c’è nessuna “volontà o intento” specifico: “riflette soltanto il modo il cui le nostre menti lavorano. Prendiamo complesse reti di informazione e, soprattutto nel processo di condivisione di quello che abbiamo appreso, creiamo un “progressivamente semplificato, altamente strutturato, e facilmente comprensibile sistema di stereotipi”.
Gli stereotipi insomma, “devono servirci per leggere in modo semplificato la realtà e non per adattare la realtà agli stessi”, ci aiutano a rendere familiare ciò che ci è estraneo, per imparare cose nuove e accettare il cambiamento (che fa paura). La gestione dello stereotipo richiede un po’ di impegno, oltre la mera accumulazione degli stessi, mattoncini di informazioni che se lasciati a sé stessi formano muri già nelle nostre teste. È solo questo che differenzia chi oggi vive attraverso modi di dire, situazioni base, verità generiche, linguaggi politicamente corretti, standardizzazioni e via dicendo, e chi vive guardando ciò che gli capita di volta in volta. Mentre un pezzo di mondo si sta staccando sempre di più dal contatto con la realtà, un altro continua a pensare a vivere, e la realtà ce l’ha chiara davanti agli occhi tutti i giorni.