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Mahi Binebine, Il grande salto dei kamikaze

Forse l’Inferno è l’incapacità di cambiare le cose. Invece la fede ci faceva vedere il Paradiso”. Parla un kamikaze e lo fa nel nuovo libro di Mahi Binebine, ex studente e professore di matematica a Parigi e oggi pittore e scrittore a New York. Nato nel 1959 a Marrakech.

Il grande salto (titolo originale Les étoiles de Sidi Moumen) è un romanzo ispirato a fatti realmente accaduti a Casablanca nel 2003. In Marocco è uscito sei anni fa “dopo una lunga gestazione”, e ora “è stato finalmente tradotto in italiano da Rizzoli. E mai pubblicazione è sembrata più attuale e necessaria” si legge nella presentazione che si è svolta a Roma il 17 maggio 2016 nello “spazio di coworking e cultura Cowall” e organizzata da Babelmed, magazine online dedicato alle espressioni culturali contemporanee nel Mediterraneo, che qui ha trovato la nuova sede della redazione.

La notte del 16 maggio 2003 Casablanca, la città più moderna e vivace del Marocco, è lacerata da 14 attentati suicidi di matrice islamica che fanno 45 morti e un centinaio di feriti. Un’esplosione di violenza a sorpresa, che lascia il paese annichilito e mostra un volto nuovo e insospettato della società marocchina”, nello stereotipo, tradizionalmente pacifista, per via della grande presenza del sufismo (la corrente moderata – e mistica – dell’islam) che insegna tolleranza, amore e calore umano.

CASABLANCA (Marocco). 17-05-2003. Patio della Casa de España dove si immolarono due uomini bomba FOTO: LUIS DE VEGA. ARCHDC
CASABLANCA (Marocco). 17-05-2003. Patio della Casa de España dove si immolarono due uomini bomba FOTO:
LUIS DE VEGA. ARCHDC

“La stessa sensazione ha colto l’Europa, dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles, quando si è capito che gli attentatori erano nati e cresciuti in Francia e in Belgio, o l’Italia alla notizia dell’arresto dei componenti di una presunta cellula di terroristi islamici in Lombardia”.

“All’indomani dell’attentato di Casablanca, Binebine vuole capire. E per farlo si reca nella bidonville di Sidi Moumen, dove erano nati e cresciuti alcuni dei kamikaze: incontra le famiglie, percorre le strade, parla con la gente. E scrive un romanzo, in cui l’invenzione letteraria aiuta a venire a capo di vite troppo brevi ed estreme, di una scelta tanto incomprensibile quanto definitiva, di una storia di indottrinamento ed emarginazione”.

Scelta che è legata anche all’odierna diffusione della “teoria del complotto occidentale contro l’islam” che non esiste, come tutti i complotti che prendono una caratteristica di una categoria di persone e la estremizzano fino allo stereotipo totale (per esempio dal Medioevo esiste quella del complotto giudaico per finalità economiche a danno di tutti i popoli). Questa idea mostra “l’occidente come la causa di tutti i problemi che il mondo musulmano vive da secoli. A partire da ciò, il testo religioso diventa un pretesto per condannare l’occidente e radicalizzare i giovani”, ha recentemente spiegato Hocine Drouiche, vicepresidente della Conferenza degli imam di Francia.

“Malgrado noi siamo d’accordo sulla responsabilità che alcuni paesi occidentali hanno in determinati conflitti – come il caso della Libia con Sarkozy o l’Iraq con George Bushquesta élite musulmana nel Vecchio continente continua a concentrarsi solo sul lato negativo e sulla congiura dell’Europa contro l’islam e i musulmani. E questo è del tutto ingiusto”.

La moschea di Casablanca [foto di Al Rinaldi]
La moschea di Casablanca [foto di Al Rinaldi, gennaio 2006]
“Il complotto dice chiaramente ai musulmani che loro non sono responsabili di niente, per il semplice motivo che sono vittime dell’occidente. Questa élite uccide la speranza di cambiamento tra i musulmani al fine di correggere gli errori commessi. La teoria del conflitto sfrutta il malessere sociale nei quartieri emarginati in Francia, Belgio e altrove. Sì, c’è ingiustizia, razzismo contro i musulmani. Proprio come è esistito ed esiste ancora un antisemitismo contro gli ebrei in Europa. Ma per la prima volta nella storia abbiamo cittadini europei che si convertono alla battaglia e all’odio”.

Binebine lo racconta attraverso le storie di Yashin, Hamid, Nabil, Fouad, Khalil e Azzi, sei ragazzini nati e cresciuti a Sidi Moumen che cercano di “fuggire la povertà, il silenzio e la violenza dei padri” e questa “assenza totale di una speranza”. Un giorno Hamid, il fratello maggiore di Yashin, cade vittima di Abou Zoubeïr, carismatico leader fondamentalista che “conosceva le parole giuste, parole ghiotte che si fissavano nella memoria e, dispiegandosi in essa, fagocitavano i detriti che la intasavano”.

È così che quel tipo di religione distorta “giunge a offrire ai sei amici una disciplina, un percorso finalmente tracciato, un’insperata occasione di riscatto sociale, nonostante chiami al martirio. Il grande salto è raccontato in prima persona da uno Yashin la cui voce aleggia sopra di noi: una voce arresa che ci parla dall’oltretomba – o dal suo paradiso – e spiega cosa significhi dibattersi ogni giorno per succhiare alla vita un sorso di dignità”.

Sappiamo che il suo è un romanzo, ma chi ha addestrato questi ragazzi?, chiede una signora dal pubblico. “Il governo nel passato ha lasciato che il fondamentalismo si installasse e ripulisse il Marocco da certe correnti rivoluzionarie e di sinistra. Vedi tutte le moschee finanziate dall’Arabia Saudita”, risponde Binebine. (La più imponente e lussuosa proprio a Casablanca). Atteggiamento politico che può riguardare anche altri paesi arabi e presenza di moschee che riguarda anche l’Europa, considerando che, per esempio, la stessa Moschea di Roma, la più grande dell’Occidente, fu finanziata dall’Arabia Saudita. Certo, l’idea era stata voluta negli anni ‘70 da re Faysal, che era un riformatore, ma, una volta assassinato, i soldi arrivarono da Fahd, che al contrario favorì “una politica di rafforzamento del ruolo dei religiosi più conservatori”.

Hosni Kaliya
Five years ago, two Tunisians set themselves on fire in protest against the country’s autocratic government. The world remembers one of them, the fruit vendor Mohamed Bouazizi. The other was Hosni Kaliya, pictured here. He survived, but now says he wishes he hadn’t. Clemens Höges/ DER SPIEGEL

Quando si parla di Arabia Saudita infatti si parla di un paese che abbraccia, come religione di stato, il wahabismo che, insieme al salafismo, racchiudono le (tante) correnti più radicali dell’islam (i salafiti dicono di essere i veri seguaci dell’islam perché emulano i primi pii musulmani, i salaf). Un paese, per esempio, che condivide con Daesh la distruzione del patrimonio archeologico (che non sia legato alla predicazione maomettana).

Dopo la guerra la Francia ha sfruttato la presenza degli immigrati” – quasi 250mila maghrebini furono impiegati nelle miniere e nell’industria per la ricostruzione del Paese – “per poi parcheggiarli in quei palazzoni periferici. Dopo anni sono diventati francesi, ma un po’ diversi, mentre, anche in quel caso, si è permesso l’installarsi di moschee salafite, lavaggi del cervello in un vuoto culturale. Ricordiamoci che gli attentatori in Belgio erano dei semplici spacciatori”. Questi addestratori “fanno leva sul sentimento di vendetta: potrete rifarvi su chi vi ha sfruttato”.

Interviene una donna, un’antropologa, Annamaria Rivera. Si chiede se jidahista e salafita non siano alla fine dei sinonimi. Nel 2012 ha pubblicato Il fuoco della rivolta, l’unica analisi comparativa esistente tra Maghreb ed Europa (Italia/Francia) sull’autoimmolazione pubblica per protesta. Essa è caratterizzata da puro nichilismo: “il numero incredibile di casi portano a una vera e propria ideologia martirista che è più culturale che religiosa, perché l’elemento principale che hanno in comune è la rivendicazione della dignità”. E che spesso, chi sopravvive ai suicidi, dice che, se avesse saputo prima quello che si deve attraversare, non lo avrebbe mai fatto.

Una foto dalla biblioteca del Centro culturale Les etoiles
Una foto dalla biblioteca del Centro culturale Les etoiles: la cultura della vita contro quella della morte

Binebine risponde che perfino Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che faticava a vivere del proprio lavoro (e attivista tunisino), divenuto simbolo delle sommosse popolari del 2010-11 dopo essersi dato fuoco in segno di protesta per le condizioni economiche della Tunisia, “decise di fare quello che fece dopo che subì un affronto alla dignità, uno schiaffo da parte di una poliziotta donna. Spesso la scintilla può essere davvero piccola”. A Sidi Moumen Binebine intervistò anche l’unico kamikaze sopravvissuto agli attentati di Casablanca: “non azionò la bomba per paura, ma in prigione è stato torturato così tanto (per arrivare ad altri terroristi) che ha detto di aver rimpianto di non essere morto. Ma oggi è di nuovo felice”.

“Tutti hanno un sogno, ma questa mafia religiosa, come la chiamo io, prende i messaggi dei libri e li piega a suo interesse. Riformare i libri, attualizzarli, reinterpretarli, questo è importante. Per esempio in Marocco “l’uomo ha il diritto di sposare quattro mogli“, come è scritto nel Corano, ma abbiamo aggiunto una nota che è fondamentale: “solo se la prima è d’accordo”.

Binebine non si è limitato a raccontare la storia di Sidi Moumen: insieme al regista Nabil Ayouch, che da Il grande salto ha tratto il film I cavalli di Dio (Les chevaux de Dieu) premiato a Cannes nel 2012, “abbiamo voluto restituire le storie di questi ragazzi alla bidonville” con la costruzione, su 3mila mq, di un Centro culturale (che ha lo stesso nome del libro) che si autofinanzia offrendo a più di 400 ragazze e ragazzi un giardino con l’orto, una biblioteca, una sala con 40 computer, il bar, la sala cinematografica… “Da poco è successo anche un miracolo: un marocchino molto ricco, una volta conosciuta la realtà del centro a Casablanca, ha proposto la costruzione di altri due a Essaouira e Fez. Lavoriamo sullo stesso terreno degli islamisti, ma se loro esaltano la cultura della morte, noi esaltiamo la cultura della vita, perché questa non debba essere necessariamente un inferno”.

Il 15 giugno 2016 lo spazio Cowall ospita la presentazione di un altro libro a tema “Marocco”. L’antropologa Annamaria Rivera e il suo “La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira”.

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