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In nome del popolo sovrano…?

Probabilmente non c’è un modo per dirlo senza sembrare autoritari, presuntuosi o supponenti, ma forse, forse, il sistema democratico attuale potrebbe essere rivisto. Non si tratta di grandi rivelazioni scioccanti, in fondo da secoli si parla di “democrazie incompiute” e da millenni siamo stati messi in guardia dalla deriva del potere alle masse, quella che lo storico greco Polibio chiamò oclocrazia.

Secondo Polibio le forme di Governo seguono naturali cicli vitali, che aspirano al loro perfezionamento ma lo raggiungono solo a intermittenza. Alle tre strutture “positive”, monarchia, aristocrazia e democrazia (ovviamente l’accezione positiva delle prime due va considerata con il periodo storico, il II secolo a.C.), ne corrispondono altrettante negative: tirannia, oligarchia e oclocrazia. Così la monarchia degenera nel dispotismo del tiranno, questo sarà ribaltato dai “giusti” aristocratici, a loro volta soppiantati dall’egoismo dei pochi oligarchi. La democrazia è la forma più sviluppata, ma quando i governanti non diventano più espressione popolare si scivola nell’oclocrazia, cioè il predominio illegittimo della massa (dal greco: ὅχλος, óchlos, moltitudine o massa, e κρατία, kratía, potere). E via da capo, con il monarca che dovrà ristabilire l’ordine.

Critiche alla democrazia del resto erano già arrivate un paio di secoli prima da Platone, che non credeva nell’uguaglianza totale degli uomini. Questa esula infatti dal principio di competenza. Senza entrare in dettagli ontologici, Platone riteneva che l’anima fosse divisa in tre centri motivazionali, solo uno dei quali razionale e quindi in grado di condurre alla conoscenza. La prevalenza di questo non si verifica in tutti gli individui, ergo solo i filosofi, razionali, possono governare per agire nell’interesse collettivo e non per soddisfare i propri impulsi, gli altri, beh, farebbero meglio ad astenersi. Precisando che l’uguaglianza deve vigere nei diritti basilari, come dare torto a Platone? Anche per lui il rischio della democrazia è consegnarsi a un demagogo che facendo leva sulle irrazionalità della moltitudine si trasformi in tiranno, annullando le libertà democratiche in un paradosso intrinseco alla democrazia stessa.Le-Bon

Con un bello scarto temporale passiamo alla sociologia contemporanea. Caposaldo degli studi sulla moltitudine è la Psicologia delle folle (1895) di Gustave Le Bon, psicologo, sociologo e antropologo francese. Le Bon riconosce l’importanza della massa, ma tutto sommato ne ha una visione negativa, distruttrice (e serve anche questo), ma incapace di costruire e perciò destinata a portare decadenza. I suoi istinti finali sono conservatori e soprattutto deresponsabilizzanti, perché l’individuo viene assorbito da un sentire collettivo autoritario e intollerante. Attento lettore di Le Bon e del (più o meno) collega Georges Sorel, Benito Mussolini sfruttò le teorie sul controllo delle folle e della massa per consolidare il proprio potere assoluto. E non si può non dire che Mussolini sia stato per molti versi tristemente innovativo.

E se il duce arrivò al Governo con un colpo di Stato comodo, lo stesso non si può dire dell’alleato Adolf Hitler, votato dalla maggioranza per il senso di rivincita particolarmente diffuso nella Germania sconfitta nella Grande Guerra, acuito dalla crisi economica. È paradossale che Hitler successe alla Repubblica di Weimar, che adottò la Costituzione più avanzata dell’epoca, che anzi, non sfigurerebbe nemmeno ai giorni nostri. Paradossale, ma predetto da Platone con oltre duemila anni di anticipo.

Il diritto di voto universale è assolutamente una conquista, per le donne e le classi più povere, ma è comunque un fatto che abbia generato mostri come Hitler e tanti altri, ultimo solo in ordine di tempo il filippino Rodrigo Duterte, già definito il “Trump dell’Asia”. Già, sperando che almeno la corsa del tycoon alla Casa Bianca si interrompa. La classe politica “non viene giù dal cielo, né da un’altra dimensione. Viene dalle nostre stesse famiglie, città, scuole, chiese, università, luoghi di lavoro” e non ci piace ammetterlo, ma riflette l’elettorato. “Se hai cittadini ignoranti ed egoisti, avrai guide ignoranti ed egoiste”, diceva in un suo spettacolo il compianto comico americano George Carlin. “Forse non sono i politici a fare schifo, forse è qualcos’altro: il pubblico. Potrebbe essere un bello slogan, il pubblico fa schifo! Dove sono le persone illuminate? Non ci sono, stanno tutti al centro commerciale, a grattarsi il sedere, mettersi le dita nel naso e comprare scarpe con le lucette”.

nogenderFino al 1912 in Italia gli analfabeti (parliamo solo di maschi, le donne non erano corpo elettorale, solo corpo), non potevano votare. Fu Giovanni Giolitti a togliere questa restrizione, a patto che l’illetterato avesse compiuto 30 anni o svolto il servizio militare. All’epoca le classi più basse non avevano proprio accesso all’istruzione, quindi l’ignoranza non poteva essere collegata all’intelligenza, era questione di opportunità – così come essere laureati non è garanzia di buon uso del cervello.

L’analfabetismo è stato sconfitto, ma resta il cosiddetto analfabetismo funzionale, cioè l’incapacità di comprendere e analizzare testi o eventi complessi, che siano una polizza assicurativa o un articolo di giornale, senza rapportarli alla propria esperienza personale. L’Italia purtroppo guida la classifica mondiale, con un analfabetismo funzionale al 47%, secondo i dati Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Vicino a noi solo il Messico, al 43%, a scendere gli Stati Uniti hanno il 20%, la Germania il 14%, i paesi scandinavi tra il 7,5 e il 9%.

Provocazione: e se fosse questo il nuovo criterio elettorale (magari ponderato), fino al prossimo Giolitti a caccia di consenso?

 


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