Chiusi, freddi, scontrosi, ma anche tenaci, oculati, dotati… ogni grande città e regione italiana ha i suoi, e questi sono i primi stereotipi, negativi e positivi, che si sentono dire in giro sui genovesi. “Alcuni son sampdoriani”, scherza qualcuno. Ma soprattutto si dice siano tirchi (il famoso “braccino corto”), e al contempo, si dice siano generosi (solo che uno dei due è più famoso dell’altro). Il che basterebbe come prova della fallibilità dello stereotipo, essendo in grado, nel corso del tempo, di affermare tutto e il contrario di tutto.
Ma da dove nascono questi stereotipi? E dove sta la “verità”? Probabilmente nel mezzo delle due affermazioni, come già sapevano i filosofi latini.
Dopo qualche giorno di esplorazione a Genova, quello che abbiamo notato noi è che tutti gli stereotipi si rivelano in forme e quantità diverse per ogni persona, dando alla fine, come risultato, una città più gentile e aperta della sua fama. Una fama comunque antica (altrimenti lo stereotipo non avrebbe avuto il tempo di “formarsi” e coinvolgere la conoscenza di così tante persone) che quindi va presa con i dovuti contesti e riferimenti.
Quando si parla di stereotipi bisogna affidarsi a fatti storici, “tradizioni orali” e leggende. Secondo quello che ricorda una genovese, “a Genova malediciamo ancora Sir Francis Drake e il 1588!”
“Genova, pur essendo sul mare, ha legato la sua ricchezza non tanto all’attività marinara, quanto all’attività bancaria. Il secolo d’oro della Superba corrisponde al ‘500, periodo di Andrea Doria”, ammiraglio, politico e nobile della Repubblica di Genova che aveva l’oro nel nome, “e l’epoca in cui i forzieri della città partivano per la Spagna e tornavano tracimanti dell’oro delle Americhe, tanto che si disse: “l’oro nasce nel Nuovo Mondo, ma viene sepolto a Genova“”.
“Nel 1585 scoppia la guerra tra Spagna e Inghilterra, e Filippo II intende reclutare un’armada invencible per sconfiggere Drake, chiedendo prestiti ai genovesi. Questi, seppur titubanti nell’investire così tanto denaro, finanziano questa operazione che portò alla costruzione di 130 vascelli, l’armamento di 24mila uomini e le terribili battaglie del 1588”.
“La fine della storia la conoscete tutti: una serie di violentissime tempeste e la capacità di Drake infrangono i sogni spagnoli e con loro anche la bella Genova, che dopo un secolo di ricchezze, agi e splendori, si troverà completamente rovinata e vedrà segnato il suo declino”.
“Ecco, da qui inizia la diffidenza nei confronti dei “furesti” (se non fosse stato per gli spagnoli…) e la parsimonia (badate bene, non tirchieria!) dei genovesi”.
Due secoli dopo anche Montesquieu, in Viaggio In Italia (i diari di un anno tra il 1728 e il 1729), scrisse dell’avarizia dei genovesi. “Al di là degli apprezzamenti sulla bellezza della città, il filosofo francese registrò la povertà della Repubblica, l’indole poco coraggiosa, ma molto orgogliosa dei suoi cittadini e l’altezzosità delle cittadine. Aggiunge che si tratta di un popolo niente affatto socievole, forse per via dell’estrema avarizia: “Non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi: di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila (…). Invitare qualcuno a pranzo a Genova è una cosa inaudita” (p. 108). Più avanti: “la timidezza si può vincere, l’avarizia no” (p. 152). Infine, aggiunge: “I Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima” (p. 109). Infine, singolare primato ligure: “le terre più cattive del mondo””.
Tra le dicerie: “si dice che i genovesi non gettino via nulla, a volte neanche i rifiuti. Infatti i pompieri hanno trovato delle vere e proprie discariche abusive in casa”. Oppure si racconta della marchesa Giustiniani che, ricevendo la regina d’Inghilterra, si scusò con lei di poterle offrire solo un caffé, perché “sa, con quello che costa la vita…””. Ma forse non era avarizia ciò che la mosse. Della marchesa ottocentesca Nina Giustiniani sarebbe più da ricordare che, da nobile, era una patriota repubblicana che raccolse fondi e fece propaganda per la Giovine Italia mazziniana e fu allontanata da Genova quando destò particolare scandalo la sua partecipazione a una rappresentazione lirica vestendo un abito dai colori sgargianti durante i giorni di lutto susseguenti alla morte del re Carlo Felice. Era innamorata dell’allora giovane ufficiale Camillo Benso, e suicida per questo amore impossibile a soli 34 anni. Ma a guardare meglio, forse “la leggenda” non si riferiva nemmeno al passato, alla regina Vittoria, ma al presente, al “Sedici ottobre 1980. Genova, la città più inglese d’Italia, riceve la regina d’Inghilterra Elisabetta II. La regina non si sottrae alle formalità degli incontri ufficiali, ma il piacere della sua visita sta tutto nell’incontro con la marchesa Carlotta Giustiniani Fasciotti Cattaneo Adorno, che l’ha invitata per il tè delle cinque”. Ma di sicuro non si parla di caffè.
Insomma, Genova sembra una città in grado di far convivere molti opposti e contraddizioni. Oggi all’apparenza mostra una presenza “multiculturale” più mescolata e integrata rispetto ad altre città italiane. Per strada si notano gruppi di amici misti di tutte le età, iniziative per la casa più “raffinate”, esercizi commerciali “veri”. Un clima più simile, per esempio, a Torino (pensando alla centralissima Porta Palazzo e il suo mercato-suq stile Marrakech, frequentato da tutti) e più distante da Roma, la capitale che tiene ancora alle distanze – e dove infatti la divisione al centro si fa sentire molto, come a Piazza Vittorio, per ammorbidirsi in certe zone come a Tor Pignattara e in modo ambivalente a Tor Sapienza – o a una Napoli che magari le distanze le accorcia, ma non sempre a buon fine, quando si traducono in molestie gratuite e razziste che si esplicano con una certa nonchalance e indifferenza.
Tra gli stretti carrugi di Genova ci sono le sartorie arabe, le macellerie halal, gli alimentari africani, le tavole calde eritree… contro i mille e uno minimarket turistici riprodotti con lo stampino, e sempre gestiti da bengalesi, che invadono Roma, e non solo il centro storico; c’è l’esperienza di GhettUp, vicino piazza Don Gallo, nel “ghetto” del Porto Antico, “un luogo aperto a migranti, profughi, persone di ogni età che vivono disagi legati all’emigrazione o all’emarginazione, cittadini, artisti, chiunque abbia bisogno di aiuto per risolvere problemi burocratici, o anche solo per una chiacchierata, per momenti di gioco e doposcuola. Cinque progetti aperti a tutti (allo scopo di far conoscere il quartiere all’esterno): un corso di alfabetizzazione, un punto per la consulenza legale, i corsi di pittura, GhettUp Tv, esperienza autogestita di televisione di quartiere e il comitato e centro ecologico per la messa a punto degli interventi da attuare nella zona”. A Genova quello che si nota poi, sono anche tante scritte sui muri, ovunque. Non sono solo “firme”, la gente sembra aver bisogno di comunicare e talvolta si risponde. Sono scritte che parlano di libertà, diritti, e fare insieme.
Ma anche questo si scontra con un altro stereotipo: “i genovesi sono dei maniman”. “È una parola genovese?” “Sì, è complicata da spiegare. Significa più o meno “nel caso decidessi di fare così, potrebbe capitare di peggio”. Diciamo che è un’ottima scusa per non prendere iniziative”. Ma a ricordare certi grandi genovesi, non si direbbe proprio che sia così!
Leggi anche: Roma, questione di zozzi