Tra una settimana gli italiani saranno chiamati alle urne per decidere sull’abolizione del comma 17 dell’articolo 6 del decreto legge 152 del 3 aprile 2006, che consente alle compagnie di gas e petrolio l’estrazione di idrocarburi fino esaurimento dei giacimenti entro le 12 miglia marine. O meglio, gli italiani saranno chiamati a rimanere a casa.
Sorprende solo in parte – o forse per niente – l’invito del Governo all’astensione, in modo da non raggiungere il quorum e invalidare il quesito. Non è infatti la prima volta che i fautori del no si giocano questa carta: nel 1991 la “buonanima” Bettino Craxi spinse ad “andare al mare”, in ballo c’era l’abrogazione delle preferenze plurime per il Parlamento, proposta da Mario Segni, primo tassello che portò al crollo del pentapartitismo e della cosiddetta “prima Repubblica” (terminologia contestata da numerosi politologi ma questa è un’altra storia). Allora la gente forse andò pure al mare, ma prima (o tornando) si recò ai seggi, il quorum fu ampiamente raggiunto ed i sì addirittura furono il 95,6%.
Nel 2005 altro appello, stavolta dalle alte sfere ecclesiastiche. Fu il cardinale Camillo Ruini ad esporsi per l’astensione ai referendum sulla procreazione assistita, ricerca sulle cellule staminali e tutte quelle brutte cose da scienziati senzadio. Sinistra e radicali ne uscirono sconfitte, nemmeno il 26% andò a votare, segno anche che in 14 anni, a prescindere dai dati delle singole tornate, la partecipazione era già in netto calo in Italia (anche alle politiche). L’unico a uscirne bene fu Romano Prodi, che definendosi “cattolico adulto” non ascoltò Ruini e annunciò che avrebbe votato convintamente no. Ma almeno avrebbe provato a dare ai fautori del sì le stesse possibilità.
Perché se la matematica non è un’opinione ai referendum abrogativi il sì ha una possibilità e il no ne ha due, il voto contrario e l’astensione, appunto. “Abbiamo un problema di democrazia”, lamenta il giurista Stefano Rodotà, ospite di Ballarò qualche giorno fa. Un Rodotà che va giù pesante sul governo Renzi, denunciandone la “schizofrenia. Non si può dire andate a votare sulle modifiche costituzionali e non questa volta. È un bruttissimo segno, la legalità costituzionale non è divisibile”.
Come è giusto che sia, anche chi la vede dal punto di vista opposto ha le sue motivazioni e alimenta il dibattito. Ad esempio Adriano Biondi, caporedattore della sezione politica di Fanpage.it, scrive testualmente “il non voto non è un diritto nella misura in cui vincola la possibilità di espressione di altre persone. Ma è evidente che è lo stesso istituto referendario a essere ‘conformato’ in tal modo e, in generale, è il modello della democrazia rappresentativa che tutela anche chi decide di non esprimere la propria opinione nelle singole consultazioni elettorali. O si agisce modificando tale istituto (e ci sono proposte concrete, come nella riforma costituzionale sulla quale i cittadini saranno chiamati a esprimersi…senza quorum, stavolta), o si lavora per il superamento di questo modello di democrazia rappresentativa (aprendo la strada alla democrazia diretta, o studiando funzionali modelli di democrazia deliberativa), o si accetta l’idea che l’astensione, ripetiamo, consapevole e informata, possa essere una scelta politica, legittima e rispettabile”.
Tra un annetto la coerenza sarà messa a dura prova, perché saranno votate le riforme del governo Renzi, tra queste, probabilmente, quella sulle unioni civili. Generalizzando molto (troppo) si può ipotizzare una coincidenza nell’elettorato dei sì contro le trivelle e dei no contro l’abolizione dei matrimoni (chiamiamoli come ci pare, ma il matrimonio è un contratto e così le unioni civili) omosessuali. Si andrà allo scontro a viso aperto no contro sì? Speriamo, perché è utopia, ma una decisione dovrebbe assumere più valore se validata da maggiori condivisione e partecipazione (libere).
La questione ruota tutta intorno al quorum, in sostanza. La soglia del 50% + 1 è stata istituita per non fare in modo che una minoranza decida su temi di interesse collettivo. Quindi i rischi sono da una parte che un 26% o meno decida per tutti (caso limite ma possibile), dall’altra che una fazione si trovi con due possibilità e l’altra solo con l’arma del sì. La classica coperta corta, almeno in teoria. Paesi come Svizzera, Stati Uniti, Francia, Australia e altri hanno scelto di non legarsi a quorum, parrebbe senza troppi problemi, almeno finché l’affluenza è medio/alta.
La Danimarca ha optato per una via di mezzo, quorum sì, ma al 40%, l’Olanda l’ha stabilito al 30%. In medio stat virtus?