Le parole, in sé, sono neutrali e innocenti. È il contesto che le rende offensive. George Carlin è stato, fino alla sua morte nel 2008, uno dei più grandi comici americani, nonché fervente sostenitore di questa teoria. Già nel 1972 se ne uscì con la lista delle 7 parole che non si possono dire, ma con il prendere piede del linguaggio politicamente corretto, ha affinato il tiro, analizzando i meccanismi sociali che, a suo dire, hanno portato a “un linguaggio morbido che nasconde la realtà”.
Alcuni esempi sono più famosi, negli Stati Uniti e/o in Italia. Come la polemica fra Spike Lee e Quentin Tarantino sul termine “nigger”. In Pulp Fiction è lo stesso Tarantino a dire “dead nigger storage”, “deposito negri morti”. A Spike Lee non stava bene e lo ha esplicitato una volta di più nel film Bamboozled. In spicci, Spike Lee non crede che un bianco possa dirlo, per quanto le intenzioni siano buone.
Sono spariti ciechi, sordi, handicappati, “come se ci fosse vergogna. È nella Bibbia”, continua l’ex cattolico Carlin (finché non raggiunse l’età della ragione, ama ripetere), “Gesù guarì gli storpi, non persone cui ci vogliono sette parole per descriverne la condizione. Il sistema fa credere che in qualche modo se cambi il nome cambi la situazione”.
In certi casi il ragionamento sembra starci ancora meglio. “La Cia non uccide, neutralizza. Non tortura, “ha potenziato le tecniche di interrogatorio“. Il Pentagono misura le radiazioni nucleari definendole sunshine units, unità di luce solare”. Sembra una cosa bella. Le armate israeliane sono “commando”, i commando arabi sono “terroristi”. E i talebani erano freedom fighters, combattenti per la libertà, quando stavano contro i sovietici in Afghanistan. Improvvisamente sono diventati terroristi, una volta rivoltatisi contro gli americani. Impercettibili sfumature, avrebbero detto i 99 Posse.
Da noi gli immigrati non possono più essere chiamati così. Giusto che la Carta di Roma cerchi di proporre ai giornalisti una terminologia antirazzista e tecnicamente corretta, ma anche a costo di calpestare la grammatica? Ora è consigliato dire migranti, che in italiano indica l’azione di migrare, ma in tempo presente, quando è in svolgimento. Per cui chi sta migrando è un migrante, ma giunto a destinazione non è per caso un immigrato (azione finita, tempo passato)? Anche “clandestino” è bandito, ma viene dal latino “arrivare di nascosto”. Poi, come venga usato dai Salvini e compagnia brutta è un altro discorso, ma clandestino, di suo, esprime un fatto. Sono i regolamenti internazionali che fanno i clandestini fuorilegge, mentre il passaggio da immigrati a migranti, in cosa li avrebbe aiutati? Anzi, ora il Forte Europa vuole sospendere la libera circolazione del trattato di Schengen. Ti diamo un nome meno spaventoso, ma ti respingiamo uguale.
“Dov’è finito il semplice, onesto, linguaggio diretto?”, si chiedeva Carlin. Circa un secolo fa i problemi neurologici dei reduci della Prima Guerra Mondiale, venivano chiamati “shell-shock”, letteralmente trauma da scoppio. Quasi onomatopeico. Già dopo la Seconda Guerra Mondiale la stessa sindrome era diventata “battle fatigue”, fatica da battaglia, apparentemente meno grave: è solo fatica, non un trauma. Corea, 1950, passano 5 anni e cambia ancora terminologia. Ora si tratta di operational exhaustion, sfinimento operativo. Sempre più lungo, sempre più sterile e innocuo. Dopo il Vietnam, infine, arriva il post-traumatic stress disorder, “il dolore è nascosto dal linguaggio tecnico”, commentava Carlin, “se si fosse chiamato ancora shell-shock forse i veterani avrebbero avuto l’attenzione che meritavano”, alludendo al fatto che molti siano diventati barboni – sarebbe ipocrita usare senzatetto ora – o eroinomani, senza aiuto dallo stesso Stato che gli aveva fatto rischiare la vita per una finta causa.
In questo articolo è stato scritto ciò che avrei voluto dire ma non altrettanto bene. Bravo