Le Olimpiadi dell’antica Grecia erano tanto importanti da interrompere le guerre. Che lo sport fosse uno strumento per la diplomazia lo capì addirittura Richard Nixon, beh forse più il suo entourage. Nei primi anni ’70 Stati Uniti e Cina, in fase di distensione, organizzarono delle trasferte delle loro squadre di ping pong, prodromo della visita di mr. “I’m not a crook”, (non sono un imbroglione), nella repubblica comunista. Altre volte invece lo sport non può nulla contro la stupidità umana e finisce per complicare ancora di più rapporti già tesi.
Gli sport di squadra cementano l’identità nazionale più di quelli individuali e tra gli sport di squadra il calcio, a livello globale, è quello ancora più seguito e popolare, nel bene e nel male. Può fare miracoli o può essere semplicemente uno specchio della società, con i suoi difetti. Di partite epiche ce ne sono molte, l’Italia ad esempio vive ancora nel mito del 4-3 alla Germania nel 1970, ma ci sono occasioni in cui il fato mette di fronte non solo rivali sportivi, ma politici.
Nel 1998 dai sorteggi per i mondiali francesi uscì l’abbinamento Iran-Stati Uniti, anche se dal 1979 e dall’assalto all’ambasciata americana di Teheran era passato molto tempo. Più fresco l’attrito fra Argentina e Inghilterra: nel 1982 la guerra delle Falkland/Malvinas, quattro anni dopo la rivincita dei sudamericani, e che rivincita. Il 2-1 targato Maradona è Storia, gol di mano, gol in serpentina e piccola vendetta contro i colonizzatori imperialisti.
Più recenti e meno famosi altri casi, a dire il vero anche meno divertenti. Anzi, per niente. Albania-Serbia nel 2014 fu sospesa per l’ingresso in campo di un drone con la bandiera della “grande Albania”, quella depredata del Kosovo dai serbi. Mitrovic, della Serbia, strappa la bandiera e via al putiferio. Anche tra Romania e Ungheria non corre buon sangue, di mezzo la Transilvania, strappata ai magiari dopo la Prima Guerra Mondiale e la questione rom, espulsi in massa dai governi ungheresi. E probabilmente anche la contesa su di chi sia la pàlinka, la grappa di quelle zone. Fatto sta che ogni volta che si incontrano in gare di qualificazioni, le tifoserie non perdono occasione per aizzare un po’ di violenza.
Dopo gli antipasti, il piatto forte e più indigesto, dove la diplomazia è andata veramente in crisi. È il 1969 e siamo in centro America, tra El Salvador e Honduras più precisamente. Ovviamente tutto nasce dalla politica, il governo salvadoregno manda dai confinanti centinaia di migliaia di contadini, secondo accordi. In Honduras avranno più opportunità. Il dittatore honduregno Oswaldo Lopez Arellano però alle prime difficoltà economiche rispedisce al mittente il capro espiatorio, quei 300 mila lavoratori, espropriandone i campi. In questo contesto il fato, tutt’altro che cieco, ci mette lo zampino. A giugno vanno in scena gli spareggi per i mondiali messicani del 1970. Essendo il Messico già qualificato come ospitante, si libera un posto per il centramericani e a contenderselo sono proprio El Salvador e Honduras.
L’andata è a Tegucigalpa, Honduras. Gli ospiti cercano di limitare la permanenza al minimo indispensabile, ma la notte prima della partita è un inferno, clacson e rumori dei locali per disturbare il riposo psico-fisico dei rivali. E fin qui non andrebbe ancora troppo male, ma si sommano lanci di pietre e gomme del pullman squarciate. La gara viene vinta in un clima surreale dai padroni di casa per 1-0, ma lo shock fu un altro. La figlia di un generale salvadoregno, la diciottenne Amelia Bolanos, si suicida al fischio finale con un colpo di pistola al petto, tanta la delusione. Sono funerali di Stato, nonostante per i cattolici il suicidio non li meriti, e animi fomentati.
Quello che l’Honduras non ha forse considerato troppo è che il ritorno è in Salvador, che la vendetta è prevedibile, anche per la morte della Bolanos. La situazione, inevitabilmente, precipita sempre di più. L’accompagnatore della nazionale dell’Honduras, che è comunque salvadoregno, viene ucciso a sassate dai suoi stessi connazionali mentre provava a placarli. L’esercito scorta i giocatori fino allo stadio, dove la bandiera dell’Honduras viene bruciata e negli scontri due tifosi honduregni vengono uccisi. L’El Salvador vince 3-0, ai tempi attuali si sarebbe qualificato ma all’epoca il numero dei gol non contava, contava solo che avessero una vittoria a testa. Quindi, giusto per rincarare la dose, è spareggio.
Per motivi di sicurezza si gioca in Messico, ma non basta a frenare gli scontri fra tifoserie, ormai il calcio è solo una valvola di sfogo per qualcosa di più grande. Vince l’El Salvador per 3-2 ai supplementari, è il 27 giugno, subito si interrompono i rapporti diplomatici fra i due Stati. Il 14 luglio, poco più di due settimane dopo, l’El Salvador invade Honduras, è guerra. In soli quattro giorni perdono la vita 6 mila persone, 15 mila i feriti, 50 mila gli sfollati, finché il 18 luglio l’OSA, Organizzazione degli Stati Americani, impone il cessate il fuoco.
Il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski, in Honduras in quel periodo, denomina il conflitto “guerra del fùtbol”, la guerra del calcio, nota anche come guerra delle “cento ore”. Giusto per la cronaca, l’El Salvador perderà tutte e tre le partite del mondiale senza segnare nemmeno un gol.