Nella mitologia persiana syngué sabour, pietra di pazienza, è una pietra magica sulla quale ognuno può riversare il racconto delle proprie sofferenze, disgrazie e colpe inenarrabili. La pietra assorbe finché un giorno, colma, esplode. Quel giorno la mente di chi si è confessato si svuota e il cuore si libera. As Sabur ‘il paziente’ è anche uno dei 99 nomi di Allah, l’ultimo. Quei nomi che in Pietra di Pazienza l’opera di Atiq Rahimi – portata in scena dal Teatro Musco di Catania dal 12 al 14 febbraio 2016 – la protagonista deve invocare per ricevere da Dio il risveglio del marito in coma.
La violenza sulla donna come stereotipia legittimata dalla cultura. «Nel 2005 sono stato invitato a partecipare a un incontro letterario a Herat, grande città nell’Afghanistan occidentale. Una città rinomata per un passato culturalmente ricco” racconta Atiq Rahimi. Una settimana prima della partenza Atiq riceve una telefonata: incontro annullato. Una delle organizzatrici del Festival, la poetessa afghana Nadja Anjouman, era stata uccisa dal marito. “Colmo di indignazione sono andato là per indagare di persona. Mi sono state raccontate altre storie – ancora più terribili – sulla sorte di molte donne in quella contrada ‘illuminata’. Avrei voluto incontrare il marito della poetessa in prigione. Ma si era iniettato della benzina nelle vene. Era in coma.”
“In quel momento avrei voluto essere una donna”, continua Atiq. “Avvicinarmi a lui. Parlargli piano in un orecchio. Dire tutto. Le cose più terribili, le più orribili. Come quelle che lui aveva fatto. Non è stato possibile avvicinarlo. Dopo questa visita, les mots m’ont attaqué come diceva Duras. Volevo scrivere una storia, un’altra storia che non fosse il racconto della vita della poetessa”. Nasce così Pietra di Pazienza, scritto in francese “quasi senza volerlo. All’inizio sono rimasto sorpreso: non usciva da me nessuna parola persiana. La ragione più banale è che scrivere in francese è per me un modo di sfuggire all’autocensura”. Pubblicato e premiato nel 2008 con il Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese, nel 2013 diventerà un lungometraggio.
A teatro è un atto unico che si apre nel giorno di Al-Quahhâr “colui che domina”, il sedicesimo nome di Allah, il sedicesimo giorno di preghiera al capezzale del marito in coma che in vita ha dominato con la violenza, ha trattato la moglie come fosse una bestia, senza nemmeno parlarle perché gli è stato insegnato che così si comporta un uomo. Per voce di Barbara Gallo ascoltiamo le parole di quella donna che si racconta in un monologo lungo un’ora. Una veglia che si trasforma in confessione su una pietra di pazienza umana: un corpo di uomo inerme con una pallottola in testa e lo sguardo perso tra le travi del soffitto. Un marito di cui non può fare a meno perché in Afghanistan una donna senza uomo non ha possibilità di sopravvivenza.
Un uomo vuoto, imbottito di falsi dogmi che lo rendono facile guerriero. “Ricordo di quando tornasti ubriaco, fumato e mi prendesti nel sonno. Finito l’amplesso hai trovato del sangue sul tuo pene e mi hai picchiata, sangue impuro”. Per quello stesso sangue invece fece i salti di gioia durante la loro prima volta, perché interpretato come il sangue della verginità, sangue puro questa volta. “Pur essendo vergine avevo paura… cosa sarebbe successo se non avessi sanguinato? Il ciclo arrivò in anticipo, di cinque giorni”, la giovane sposa non osa parlarne e in cuor suo lo sente come un imprevisto divino. Poi la difficoltà ad avere figli e quell’uomo pronto a ripudiarla. Seguendo la guida di una zia la giovane si sottopone ad accoppiamenti bendati con uno sconosciuto. Il gioco d’inganni è iniziato, avrà diverse figlie e della sua sterilità l’uomo non avrà mai coscienza.
Il posto peggiore dove nascere donna. Pietra di Pazienza è il ritratto di un maschio afgano medio, un uomo che come tanti suoi connazionali, talebani e non, preferisce “stuprare una donna piuttosto che pagare una prostituta”. L’Afghanistan oggi è il posto peggiore dove nascere donna. I dati pubblicati nel 2015 dall’Human Rights Watch raccontano che l’85% delle donne è senza istruzione, la metà si sposa prima dei sedici anni e ogni due ore una donna muore dando alla luce un figlio. Nel corso del 2014 i casi di violenza hanno avuto un trend di crescita del 25% e 120 donne si sono date fuoco.
Percorso facile si è disegnato l’uomo afgano: pone la forza come principio di affermazione, la violenza come strategia di dominazione e la religione come sigillo di legittimazione. Fa rabbia il modo in cui chi veicola i messaggi religiosi si sia fatto complice di una mentalità tanto malsana, ingiusta e raccapricciante, una mentalità che non è patriarcale; è meschina e violenta. E in tutto ciò la guerra non si arresta e aumentano i suoi effetti durante il 2015 Unama documenta 11.002 vittime civili: 3.545 morti, 7.457 feriti su una popolazione di 30 milioni di abitanti circa. Sono 1,3 milioni i bambini in età scolastica privati dell’istruzione a causa della guerra e della povertà. Ci sono zone, come la provincia di Nangarhar, dove si scontrano: il governo di Kabul, i Talebani e militanti dello Stato Islamico.
Nell’atto psicomagico che è il teatro la syngué sabour è il pubblico. Esplode nell’applauso, la compassione si fa coscienza e il pubblico esce dalla sala con una nuova esperienza, immaginaria ma tanto reale, una testimonianza che cambia lo sguardo sul mondo e sulle cose. Dispiace che Barbara Gallo durante la prima – forse ansiosa di mantenere quel ritmo dinamico che ben snoda lo spettacolo – abbia corso un po’ troppo. Lasciando la sensazione di un pasto consumato troppo in fretta.
Un lieve capogiro mentre si esce dal teatro. Non per la corsa ma perché si vorrebbe riprodurre l’abbraccio che, alla fine, si alza silente dal corpo in coma del marito. Qualcosa è accaduto, la forza della verità ha schiaffeggiato il cervello in riposo del guerriero. Lui abbraccia la sua sposa. Noi vorremmo abbracciare tutte le donne che attendono che la loro syngué sabour esploda.