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Maracanaço, il Brasile dalla polvere alla leggenda.

In Brasile il calcio è molto più che uno sport. È partecipazione incondizionata, fede cieca e, spesso, ragione di vita. Il caso dei Mondiali giocati in patria nel 1950 non ha avuto uguali per aspettative poste su una squadra, caricata del peso di dover rappresentare l’immagine del Paese.  E se il Brasile di oggi, anche quando non è nella forma migliore, è sinonimo di calcio, lo si deve anche a una sconfitta pesantissima dal punto di vista emotivo.

I quarti Mondiali di calcio e primi del secondo dopoguerra sono assegnati al Brasile, ancora a secco di trionfi. Nel 1930 i sudamericani vengono eliminati nel girone dalla Jugoslavia, quattro anni dopo escono ancora al primo turno, stavolta per mano della Spagna. Nel 1938 va meglio ma non abbastanza, è l’Italia padrona di casa e futura vincitrice a far fuori il Brasile in semifinale. Dopo la “pausa” per motivi bellici, l’occasione è di quelle da non perdere e per amplificare la spinta di un pubblico già estremamente passionale, viene costruito lo stadio Mario Filho, meglio noto come Maracanà dal nome di un pappagallo diffuso nell’area.

Si sta iniziando a capire il potenziale economico del calcio, così la Fifa cambia formula rispetto alle ultime edizioni, che cominciavano già con gli scontri diretti degli ottavi di finale. Oltre al girone del primo turno, le qualificate devono giocare un altro girone, un mini-torneo a quattro in cui la prima in classifica si laurea campione. Più partite, più incassi, sacrificando il fascino della finalissima, almeno sulla carta. Sulla carta, perché nell’ultima giornata il calendario ha previsto Brasile-Uruguay, prima e seconda in classifica. Di fatto una finalissima.

maracanà
L’imponenza del Maracanà

I pronostici sono tutti per i padroni di casa. Sono avanti in classifica, quindi gli basta un pareggio, poi c’è il tifo pazzesco del Maracanà, infine è spaventoso il ruolino di marcia: nel girone finale il Brasile ha travolto 7-1 la Svezia e 6-1 la Spagna, con un Ademir in grande spolvero, a segno 5 volte. L’Uruguay in proporzione ha arrancato, 2-2 con la Spagna e 3-2 alla Svezia. Ma è squadra solida, esperta, dura a morire e ha già vinto i primi Mondiali, a Montevideo nel 1930. Però deve vincere a tutti i costi, il pareggio renderebbe solo più onorevole il secondo posto. L’impresa è titanica.

Alle 15 del 16 luglio 1950 il calcio di inizio. All’epoca la tv non dettava legge sugli orari, con notturne assurde o, come avvenne nel 1994 negli Stati Uniti, con partite a mezzogiorno per agevolare il grande bacino di pubblico europeo. L’andamento dell’incontro è paradossale, il Brasile gioca senza criterio è si riversa tutto nella metà campo uruguayana, sembrano loro ad essere obbligati a vincere. La Celeste invece aspetta, sperando nel contropiede. All’intervallo è ancora 0-0, ma ormai solo 45’ sembrano separare i padroni di casa dal primo titolo internazionale. Impressione confermata a maggior ragione ad inizio ripresa, quando dopo appena due minuti Friaça porta in vantaggio i suoi. Partita in ghiaccio? Nemmeno per idea.

I duecentomila sostenitori del Brasile, ancora più invasati, trascinano i loro beniamini, vogliono un’altra goleada. L’Uruguay non cambia, anzi non può cambiare registro, fa il possibile per resistere e lo fa usando il cervello. Due azioni di contropiede, due goal. Prima Schiaffino, poi Ghiggia a 11’ dalla fine ribaltano il risultato e la storia della partita, un po’ anche la Storia (con la S maiuscola) del calcio. Il classico Davide che batte Golia, prima del dramma sportivo. Le cronache narrano che dopo il fischio finale nessuno dei brasiliani si rese bene conto di cosa era successo, come quando non si riesce ad elaborare un lutto, tanto forte era lo shock. Tanto forte che avrebbe causato i 90 decessi di cui sopra, alcuni proprio dentro il Maracanà. Si parla di decine di infarti e addirittura di due spettatori che si sono lanciati dagli spalti.

In un clima così surreale la gioia per la vittoria, il massimo nel calcio e non solo, passò in secondo piano per gli stessi uruguayani. Mentre a Montevideo si festeggiava, i giocatori, lontani da casa per kilometri e lontanissimi dal punto di vista ambientale, erano amareggiati, quasi da sentirsi in colpa per aver fatto piombare una Nazione intera nel baratro, per i morti, per i bambini e gli adulti che piangevano dilaniati dal dolore. Non ci fu nessuna cerimonia di premiazione, anche perché la federazione era così convinta che sarebbe stato il Brasile a vincere, che non preparò né l’inno né portò la bandiera dell’Uruguay. Una fugace stretta di mano, consegna della coppa e tutti a casa, anche perché di lì a poco i calciatori avrebbero rischiato il linciaggio.

Obdulio Varela
Obdulio Varela

Ma un po’ di onore va reso a chi ha costruito un’impresa. Ghiggia e Schiaffino, i marcatori in finale e gli uomini di più talento in formazione, ma soprattutto il capitano Obdulio Varela, una diga contro la marea brasiliana, la cui grinta da combattente fu ancora più decisiva della classe delle punte, che da sola non sarebbe bastata. Un vero peccato che un lottatore del genere sia finito in miseria, posteggiatore abusivo distrutto dall’alcol. Anche perché il calcio non arricchiva ancora i giocatori. Gli dava fama, questo sì, ma non soldi.

Il 1950 è stato un vero e proprio spartiacque, dalla sconfitta più profonda e desolante, fuori proporzione per chi vive il calcio in maniera “normale”(dipende sempre dal concetto di normalità, per il Brasile di allora era quello), sarebbero nati un nuovo termine e una leggenda.

Venne coniata la parola “maracanaço”, la sconfitta contro ogni pronostico, venne anche cambiata la divisa ufficiale: quella bianca portava sfortuna, meglio riprendere i colori della bandiera, da allora sarebbero stati i Verdeoro. Grazie a divinità del pallone come Pelè, Garrincha e poi negli anni a seguire Romario, Bebeto e Ronaldo, avrebbero vinto cinque Mondiali, più di ogni altra Nazionale. E oltre ai numeri sarebbero diventati sinonimo di qualità.


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