Martedì 5 gennaio 2016, nell’ambito della mobilitazione promossa dal Partito Radicale, una delegazione catanese – composta da Luigi Recupero, Gianmarco Ciccarelli, Patrizia Magnasco, Stefano Burrello e io – è entrata nella casa circondariale Bicocca di Catania. “Visita di controllo” sulle condizioni fisiche della struttura, per assicurarsi che i parametri, contro il trattamento inumano e degradante, definiti dal Consiglio d’Europa siano attuati.
La visita era stata annunciata. L’ispettore di reparto Giovanni Cuddé ne era addirittura entusiasta, finalmente qualcuno della politica che si interessa concretamente alla realtà, a cui far vedere come stanno le cose. “Ci muoviamo tra le maglie della legge e non mancano forti miopie legislative”. Giovanni Rizza porta addosso 18 anni di direzione al Bicocca: ha la schiena a guscio di tartaruga, come direbbero i cinesi taoisti. Ne ha viste, ne sa, osserva con obiettività e accetta la lentezza con cui le cose cambiano. Prudente ma disponibile, sottolinea che sente aria buona e che buone cose stanno avvenendo. “Arrivano finalmente piccoli finanziamenti, li autogestiamo coinvolgendo i detenuti nei lavori”. Attualmente sono 35 i detenuti lavoratori.
Finalmente acqua calda e riscaldamenti. Risolto da poco il problema dell’acqua calda, grazie a un sistema termico solare che comunque risente di un problema strutturale. “Quest’edificio è stato costruito in soli sei mesi (anni ’80). L’acqua calda deve attraversare duecento metri, parte a 70 gradi ma dal rubinetto esce a 40,” spiega Rizza “adesso non solo abbiamo l’acqua calda ma i costi sono calati dell’80%, prima con una produzione inferiore spendevamo 10 mila euro al mese”. Lo stesso avverrà per i termosifoni, non funzionano da anni, a Febbraio inizieranno i lavori assegnati alla Consorzio Stabile Marchese.
L’aula bunker, la mafia e gli scafisti africani. Bicocca è un penitenziario di Alta Sicurezza, dove si trovano e vengono giudicati reati riconducibili ad associazione mafiosa. Da vent’anni i boss della criminalità organizzata catanese transitano qui. Attualmente sono 192 i detenuti, la capienza regolamentare è di 138 posti. “L’aula bunker -dove si svolgono i processi- dopo le festività riprenderà la sua normale attività” sottolinea il direttore Rizza “il numero dei detenuti è destinato a crescere.”181 sono di Alta Sicurezza (mafia), 7 sono ristretti comuni, stranieri e “non si incontrano con gli AS” spiega l’ispettore Cuddé.
Abbattuto il muro della sala colloqui Nella sala colloqui c’è un gran chiasso. Ogni tavolo, rotondo, è circondato da mogli, figli, fratelli e genitori. “Prima c’era un muretto divisorio, oggi abbattuto. Abbiamo rifatto la sala autonomamente, con il lavoro di due detenuti uno egiziano e uno rumeno… e le nostre guardie penitenziarie che danno sempre una mano in tutto” racconta il direttore che non nasconde una grande soddisfazione per il lavoro fatto. Lo stesso sta accadendo per le piccole palestre… se tali possiamo chiamarle. Stanze che si trovano nel piano delle celle. Le stanno ristrutturando, quella del padiglione destro appena completata, l’altra: terrificante. C’è qualche attrezzo per il body building e un bagno, ripulita è vivibile seppur piccola.
L’area passeggio, la scuola e le celle La fatiscenza dell’area passeggio, rispecchia perfettamente lo stereotipo collettivo costruito dal cinema di settore, soprattutto americano. Circondata da muri rattoppati con ferrose lastre arrugginite, un mazzo di carte siciliane a riposo su una panca di cemento, un calcio balilla e dei bagni a vista che ricordano strutture abbandonate da anni. C’è poi la scuola elementare media e superiore, una sezione dell’istituto professionale alberghiero Karol Wojtyla con una cucina e un saloon per laboratori ed esercitazioni. Nelle celle, di 9 metri quadri, ci vivono in due, tenute ordinate, stracolme di cibo portato dai parenti, un letto a castello, un tavolino, la tv e un piccolo bagno con doccia (nel padiglione destro, il sinistro ha le docce comuni sul piano, quattro). Le indicazioni date dal Consiglio d’Europa sulle celle sono 10 metri quadri per un detenuto e 14 per due prigionieri.
Stereotipi dietro le sbarre Visitare il carcere non è la stessa cosa che frequentarlo quotidianamente. I detenuti sono assai reverenti, tra soggezione e fragilità, mentre parlano tirano l’occhio controllando dove si trovano le orecchie del direttore. “Chi sbaglia paga ma non così” è la frase più ricorrente. E hanno ragione, anche perché la gente mafiosa avrebbe un lavoro profondo da fare, disinnescare un sistema – di vita e di pensiero. Ma del lavoro rieducativo non c’è traccia, ne’ possibilità. Al Bicocca gli educatori penitenziari dovrebbero essere 6 (così pochi?!), sono in 3. “Il loro lavoro così si riduce alla burocrazia,” spiega Cuddé. Lo psicologo ha a disposizione 12 ore mensili in toto. I detenuti sono 192… lo psichiatra – un lacaniano – ha a disposizione 4 ore al mese. I casi psichiatrici del Bicocca sono cinque.
Impareranno a scrivere, a disegnare con il pirografo, i più bravi a gestire la cucina di un ristorante ma non sono accompagnati nell’analisi e revisione del loro sistema di idee e di schiavitù nei confronti della vita mafiosa. A che serve aiutarli ad aprire una trattoria se poi questa diventa l’ennesimo ricettario per il riciclo di denaro sporco?
Le guardie penitenziarie Dall’altro lato ti trovi a parlare con le guardie che sono vittime anch’esse: sono in numero insufficiente e i turni più lunghi non risolvono il problema. Non ricevono più nemmeno la divisa, se la devono comprare. Il rapporto equilibrato tra detenuti e agenti penitenziari non è facile, “vedi com’è riverente?” sottolinea Cuddé, mentre un detenuto del Gambia gli rivolge un solare e rispettoso saluto. Porta su dei carrelli i doni dei parenti: buste con cibo e vestiti. “E’ uno scafista, uno di quelli che non ci ha pensato due volte a gettare in mare la gente se gli dava fastidio. E’ ligio al dovere e molto reverente. Leggo perfettamente la scaltrezza nei suoi occhi. Naturalmente, assegniamo agli stranieri questo tipo di lavori, sono fuori dalle dinamiche di clan e non rischiamo fughe di messaggi”.
E poi c’è il teatro e l’arte e la chiesa… Ma tutta la professionalità e buona volontà non può far nulla di fronte all’enorme baratro strutturale. Che senso ha tutto ciò, privare del bene più grande, la libertà, se non si conduce il detenuto in un lavoro profondo di messa in discussione del suo sistema di valori? Cosa si risolve così? Gli stereotipi sul carcere vengono confermati tutti. Anche le frasi appese accanto alla lavagna delle elementari, inneggianti all’amore e alla speranza. Un amore e una speranza, superficiali, personali, destinati alla famiglia e a se stessi. La dimensione più ampia di società, natura, rispetto e sostenibilità sono concetti su cui annuiscono ma nessuno li aiuta a tradurli davvero in condotta di vita. Non è solo una questione di “pentirsi.”
Sono vittime tutti, guardie e ladri… come sempre. Solo una rivoluzione del sistema penitenziario può cambiare davvero le cose, una riforma che parta dalla persona, dalle idee, dai valori, dalla ricerca di un cambiamento interiore e non meramente fisico, punitivo e nozionistico. Dove sul contenuto si modelli la forma: il lavoro, la società, la famiglia e la legalità.
M. Daniela Basile
(7 Gennaio 2016)
Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato. E la prigione non salva nessuno.
Dal film Riso amaro