Lavorare da casa. Dal punto di vista di un’adolescente può sembrare qualcosa di davvero esaltante. E anche dal punto di vista di tutti quelli che devono svegliarsi presto per arrivare chissà dove in un triste ufficio. Ma pensare una situazione e trovarsi dentro di essa può spesso risultare completamente diverso.
Il (sempre più) diffuso lavoro freelance, quello che prima chiamavamo telelavoro, porta da sempre con sé un doppio stereotipo da parte di chi ogni giorno si reca in un regolare “ufficio”: da un lato viene invidiato per le grandi possibilità di autonomia che concede; dall’altra viene al contrario svilito, in quanto si ritiene che la persona che lavora da casa poi di fatto faccia poco o nulla.
Quante volte alla domanda, “che lavoro fai?”, segue un certo imbarazzo nel confessare che lo si fa da casa?
La verità, come spesso succede, sta nel solito mezzo che è fatto di vantaggi e svantaggi di cui è meglio essere consapevoli. Tra i primi c’è sicuramente la flessibilità (di tempi e luoghi), ma essa può rapidamente trasformarsi in un’insidia se non si è in grado di gestirsi, nei modi e nelle energie, portandoci a lavorare (troppo o troppo poco) in orari improbabili che dovrebbero servire per riposarsi, ovvero per lavorare meglio il giorno dopo. Spesso i problemi succedono soprattutto all’inizio, non essendo affatto abituati all’autogestione, ma piuttosto a essere direzionati “dall’alto”. Una realtà con cui devono destreggiarsi ben 1 milione e 8 di ragazzi Millenials tra i 18 e i 34 anni, secondo l’ultima rilevazione Censis.
“L’attuale invasione della sfera lavorativa anche nelle ore di vita privata – con relativo e potenziale aumento del carico di lavoro – non può che aumentare i livelli di stress“, spiega Franco Fraccaroli, professore di psicologia del lavoro all’Università di Trento, intervistato da Vice. Tra gli altri svantaggi che elenca c’è “l’inevitabile diminuzione delle relazioni sociali e delle forme di scambio tipiche del posto di lavoro – anch’esse un elemento importante della vita lavorativa e di quella personale”. Il rischio della solitudine e dell’anonimato.
Ma la domanda è, (visto che la realtà è questa), si può cercare di aggirare il problema cercando di impegnarsi al 100% (e non più alla metà del tempo perché prima c’era “il lavoro”) su ciò per cui siamo davvero bravi e pensiamo di riuscire, magari più stressati ma più felici? E magari usare lo stesso tempo a disposizione per altre attività che vorremmo fare (e non più alla metà del tempo, se andava bene, perché prima c’era il “lavoro”) e che potrebbero regalarci, alla fine, lo stesso livello di relazioni sociali, se non renderle ancora più selezionate e vicine a come siamo? Cercare di migliorare la propria vita (e di conseguenza quella degli altri) assumendosi il coraggio di essere completamente fautori del proprio destino e dei propri valori (e non quelli delle aziende, che si possono riassumere tendenzialmente nel profitto)?
Alla fine il lavoro da casa funziona un po’ come il lutto e le sue fasi di accettazione.
- All’inizio c’è la negazione/rifiuto (talvolta sostituiti da una certa esaltazione)
- poi si passa alla rabbia (col mondo e con sé stessi) perché non sta succedendo ciò che ci si aspettava
- si arriva alla contrattazione/patteggiamento quando si inizia a darsi un minimo di regole, perché “non si può andare avanti così”
- si cade in depressione (detto anche abbrutimento) perché tutti questi cambiamenti sono davvero difficili da gestire e ci si sente gli ultimi della società
- si finisce con l’accettazione e la lenta e paziente sistemazione della propria vita, in questa nuova, splendida occasione di autogestione
Avvicinare sempre di più il lavoro alla propria vita, infatti, lungi dall’essere un modo per stressarsi o perdere contatti sociali, può essere invece un primo faticoso passo verso un’altra direzione. Potrebbe significare infatti, il progressivo allontanamento dal vero lavoro disumanizzante, che raggiunse il suo picco con la “catena di montaggio”, posto oltretutto al servizio del profitto di altri, e spesso con obiettivi non propriamente “umani”. Vedi le tante aziende, anche italiane, di cui oggi si inizia un minimo a parlare, che vendono armi, potendo per legge non farlo, a Paesi di fatto in conflitto. “I nostri operai devono pur lavorare”, ci si giustifica. “Potrebbero lavorare alla riconversione”, si suggerisce. Ma non si fa: si preferisce far combattere la povertà contro la guerra. Guerre sanguinose alimentate da semplici uomini di provincia guidati da grandi ricchi.
Forse lavorare da casa, se ci riuscite davvero, nel senso, a guadagnare, è la migliore cosa che vi possa capitare. Dopo una lunga fase di disperazione, sarete in grado di focalizzare ciò che intendete fare veramente, verso un lavoro più vicino alla vita vostra (e non quella dei grandi ricchi), appunto, e dunque un lavoro più sano.
Però, per favore, uscite di casa. Il problema del lavoro da casa, fondamentalmente, è la casa. Meglio un bar, una biblioteca, una libreria… vedrete, e magari conoscerete, altri umani solitari come voi, lavorare alacremente a chissà cosa. Poi, volete mettere poter dire: “io lavoro al Fandango Incontro il lunedì, il martedì al Chiostro del Bramante, il mercoledì all’Auditorium…” Non vi immagineranno più un tutt’uno col divano e le facce saranno decisamente diverse.
Per aiutarci nell’impresa, lunedì pubblichiamo in Homepage una lista (in aggiornamento) di posticini a Roma dotati dell’indispensabile wi-fi, adatti a qualsiasi lavoratore da pc che intenda mettere il naso fuori di casa per lavorare tranquillo al costo di un caffè.