Amy sentiva tutto come una bomba. Come fosse amplificato. Come se le parole venissero solo dal dolore. Come se dovesse provare tutto l’improvabile, ma solo se fa male, come se dovesse amare senza ripensamenti chi ha poi effettivamente contribuito ad ammazzarla. Perché di fatto si odiava, amando solo chi poteva annientarla.
Amy, the girl behind the name (2015), documentario di Asif Kapadia, presentato a Cannes a maggio di quest’anno, non uscirà da nessuna parte in Italia se non sporadicamente distribuito dalla Nexo Digital.
Dopo il documentario sulla carriera del pilota Senna (2010), premiato al Sundance Film Festival negli Stati Uniti, Kapadia racconta la breve e turbolenta vita di Amy Winehouse, una ragazza fragile, fragilissima, una cantautrice con un carisma da leonessa. Una bambina che ha mal sopportato l’assenza del padre e la debolezza della madre e una ragazza che in otto anni di carriera abbracciò e mescolò otto generi, a partire dal jazz e le sue sfumature blues, il soul, soul bianco e neo soul, il contemporary R&B, il rhythm and blues, il reggae. È solo la sua voce che l’ha sostenuta, anche se non ci ha mai creduto troppo, solo la sua passione l’ha salvata finché ha potuto. Attorno qualche amico. Per il resto una bulimica nascosta che non accetta il suo corpo, che inizia a maltrattarlo, già spossato, in una spirale di alcool e droghe che non può che farsi sempre più stretta per una ragazza che non ha mai rispettato sé stessa.
Perfino l’amore, il sentimento più alto, in Amy diventa nero, lugubre. Le foto di lei e dell’amato marito Blake la dicono lunga. Due anime tormentate. Gli amici lo raccontano, “quando si faceva lo faceva come una che vuole sparire”, diceva il rapper Mos Def.
Sta di fatto che la famiglia respinge il documentario dichiarando che “è fuorviante e contiene delle bugie”. Ma i filmati e le foto sono reali. E da essi sembrano emergere delle questioni. Per esempio che Amy amava un padre, magicamente riapparso quando lei è diventata ricca e famosa, e un marito, magicamente riapparso quando lei è diventata ricca e famosa. Un padre che ammette un altro fatto: non aver costretto la figlia alla prima riabilitazione, da cui la grande hit Rehab, è stato un errore, “d’altra parte non sarebbe mai uscita fuori Back to black”. Già. Con Love is a losing game, è il terzo singolo che l’ha resa famosa a livello globale, e che ha segnato per il padre l’inizio della sua carriera di attore di serie tv. Di fronte a una dichiarazione del genere ti stupisci: non si può dire che sia falsa, ma forse non dovrebbe dirla un padre…?
Lo stesso padre che un giorno si presenta a St. Lucia con una troupe al seguito. Amy è “in ritiro” sull’isola da mesi, lontana da giornali e paparazzi che normalmente la assediano. “Non vedo Amy da tanto”, dice, “dobbiamo parlare di un sacco di cose di lavoro”. Poi si vede Amy esprimere la sua disapprovazione per quello che sta facendo, il fatto che si metta, e la metta, continuamente in mostra. Al contempo vicino (e poi in carcere) ha un’altra “persona negativa”, un marito che sembra sempre pronto a qualsiasi comparsata, compagno di tutte le droghe possibili. Crack, cocaina, anfetamine, eroina… E lei che inizia a fare concerti in cui è costretta a prendersi a schiaffi da sola per riuscire a cantare. Fino al suo ultimo concerto a Belgrado, in silenzio. Quello che doveva rilanciarla a una vita normale. L’idea era stata sua, ma poi aveva detto a suo padre che non voleva più. Che non ce la faceva. L’hanno messa sul palco lo stesso. Mentre la rabbia della folla montava, lei correva e si accucciava sul palco. Abbracciava i suoi musicisti. Sembrava una bambina, un animale ferito, che non ha più nessuna vergogna.
Ma il punto è. Che vita è una vita spesa a difendersi dagli occhi degli altri, che non puoi fare un giro che vieni assaltato, che non puoi fare nulla che vieni bollato, e tutti si arrogano il diritto di dire qualsiasi cosa su di te? È davvero questa la bella vita della gente famosa, quella che tutti invidiano? Al di là delle debolezze di Amy, una vita così non dovrebbe essere auspicabile, è completamente innaturale. Recentemente l’ha scoperto anche una ricerca australiana: l’essere famosi può accorciare la vita perché si è sottoposti a livelli di stress molto più alti rispetto al normale. Ed Amy lo sapeva: “se diventassi famosa non so proprio come reagirei, probabilmente diventerei pazza”. Rideva, aveva 20 anni e l’avevano appena scoperta, lei e la sua prima canzone, Frank, quando già dichiarava che aveva bisogno di un uomo forte vicino.
Li amava fino a farsi male, questi uomini “forti”, fino a dipendere da loro in tutto e per tutto. L’unico che poteva salvarla, forse, l’ha conosciuto troppo tardi. L’esperienza di Body and soul, il duetto con Tony Bennett, l’ultimo crooner americano, il suo idolo di quando era piccola, nell’ultima fase sembrava l’avesse ripresa. “Un uomo d’altri tempi”, veramente forte, ma gentile e quieto, che le avrebbe voluto dire “la vita ti insegna a vivere se hai abbastanza pazienza da viverla a lungo”.
Ma Amy si annoiava a morte dentro quella nuova vita vuota di relazioni sincere. Era arrivata al punto di non sentire più niente. “Senza le droghe”, l’alcool almeno, quello che di fatto l’ha uccisa, “è tutto così noioso”, confidò a una vecchia amica d’infanzia che non frequentava più. L’aveva portata dietro le quinte per dirglielo, appena fu nominata vincitrice del Grammy Award.
Forse rimangono solo le sue canzoni a parlare chiaro. In un’intervista dichiarò che lei non riusciva a non scrivere di ciò che viveva direttamente. Amy Winehouse non faceva altro che cantare la sua storia, amori falliti, “giochi a perdere”, depressioni, droghe, riabilitazioni. Perfino i video dicevano già tutto, tra cliniche e bottiglie vuote su letti sfatti. Come poi nel luglio del 2011 è stata ritrovata dalla sua guardia del corpo, che disse “sembrava stesse dormendo”.
They tried to make me go to rehab Hanno provato a farmi andare in riabilitazione
but I said “No, no, no” ma io ho detto “No”
Yes I’ve been black but Sì mi sono infuriata ma
when I come back you’ll know, know, know quando torno lo saprete
I ain’t got the time Non ho avuto il tempo
if my daddy thinks I’m fine… se il mio papino pensa che io stia bene…
…I don’t ever wanna drink again …Non voglio bere mai più
I just, ooh, I just need a friend ho solo bisogno di un amico
I’m not gonna spend ten weeks non passerò dieci settimane
Have everyone think I’m on the mend mentre tutti pensano che io stia in via di guarigione
It’s not just my pride non è solo il mio orgoglio
It’s just ‘til these tears have dried è solo finché queste lacrime non si saranno asciugate
Alla fine è veramente utile accusare qualcuno delle proprie debolezze? E si può veramente biasimare Amy, una ragazza che non tollerava la fine dell’amore, figurati la pressione di ciò che i media sono in grado di innescare? Oggi sono tutti più silenziosi. Nessuno ironizza più sulla sua vita tossica. Ma quando era ancora viva non si esitava a inseguirla, spiarla, giudicarla. Era giovanissima, 18enne quando ha iniziato la sua carriera, 27enne quando è morta. Il punto è che nessun documentario e nessuna polemica riporterà indietro la sua bella voce, calda e vera, che nell’ultima fase si stava avvicinando al rap e chissà quali altre sperimentazioni. Purtroppo è questo l’unico grande fatto, a cui non c’è rimedio.