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I due Escobar

Andrés e Pablo Escobar hanno in comune la “malattia” per il calcio e, casualmente, il cognome: Escobar. Ma sono personaggi diametralmente opposti.

I due Escobar è un documentario realizzato da Jeff e Michael Zimbalist per la rassegna “30 for 30” di Espn, 30 film per festeggiare i 30 anni del canale tematico sportivo statunitense, e racconta in maniera chiara e dettagliata l’ascesa e caduta negli inferi del calcio nella Colombia tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Con Andrés e Pablo protagonisti, con diversi ruoli chiaramente. Altrimenti non rappresenterebbero il bene e il male.

Pablo Escobar non ha bisogno di presentazioni, è il più famoso narcotrafficante di sempre. Nato a Rionegro nel 1949 ma divenuto boss indiscusso del cartello di Medellín, deve riciclare il denaro dello smercio di cocaina e ha la passione per il calcio: viene naturale acquistare l’Atlético Nacional de Medellín. I mezzi e la passione ci sono, non è “solo” una copertura. I calciatori forti non sono costretti ad andare all’estero per avere successo, il club prospera e arriva a vincere la Copa Libertadores nel 1989, l’equivalente sudamericano della Coppa dei Campioni, prima squadra colombiana a farlo.

E, secondo un particolare codice etico quasi da Padrino di Mario Puzo, aiuta anche la “sua” gente, i poveri di Medellín: costruisce campetti per chi non può giocare, case a chi vive per la strada o peggio ancora in baraccopoli che in realtà sono vere e proprie montagne di rifiuti. Nato lui stesso indigente, mantiene i tratti abbastanza tipici in Sudamerica di socialità, di riscatto delle classi più basse. Ma distorce tutto con l’attività criminale. Comunque, certamente per convenienza, è visto come Robin Hood, d’altronde per molti ha effettivamente fatto più lui che lo Stato. Non sono stati d’animo così facile da giudicare nettamente.

Pablo Escobar
Pablo Escobar

Andrés è invece una persona umile, timida. Anche lui vuole fare qualcosa per il suo Paese, ma cerca la strada difficile, lastricata di fatica e sudore. È vero, l’unica cosa che sa fare è giocare a calcio, ma anche quello può contribuire a migliorare l’immagine della Colombia, che anche dal punto di vista sportivo era associata alla violenza – ad esempio la Fifa le toglie l’organizzazione dei mondiali del 1986, a 3 anni dall’evento, anche se ufficialmente per ritardi organizzativi.

Fatalità volle che Andrés finì a giocare per l’Atlético Nacional di Pablo, ma lui faceva solo il suo mestiere, non voleva mischiarsi ad altro. Probabilmente senza immaginare che Pablo sarebbe stata una “garanzia”.

Già perché era senza dubbio un omicida sanguinario, contro giudici, politici, poliziotti e chiunque tentasse di ostacolarlo, senza curarsi di lasciare vittime “collaterali” negli attentati. A differenza degli altri narcos, anche loro proprietari di squadre di calcio, usava la pressione violenta persino nello sport, corrompendo, minacciando, uccidendo. Tutto per vincere. Poi c’era l’altro lato, da boss dei boss, cercava di gestire un certo “ordine”. Chi voleva delinquere nelle strade doveva chiedere il permesso e, per quanto paradossale, dopo la sua morte nel 1993 la situazione è degenerata. Perché a quel punto tutti rivendicavano una quota di potere, in una guerra vorticosa che inghiottiva tutto intorno a se.

L'ossatura (e i capelli) della Colombia, da sinistra Valderrama, Higuita e Alvarez
L’ossatura (e i capelli) della Colombia, da sinistra Valderrama, Higuita e Alvarez

Anche il calcio ne risentì, nel bene e nel male. La nazionale, dopo la goffa eliminazione da Italia ’90 per mano del Camerun – frutto di un clamoroso errore del portiere Renè Higuita che perse palla cercando di dribblare gli avversari – si era in rimessa in sesto.

Nelle qualificazioni ai successivi campionati del mondo inanellò una serie di risultati positivi, andando addirittura a vincere in Argentina per 5-0 nella partita decisiva. Secondo molti la Colombia avrebbe potuto essere la sorpresa di Usa ’94, poteva contare su un gruppo solido impreziosito dal portiere Higuita (al di là dei momenti di follia), Escobar in difesa, Carlos Valderrama a centrocampo e Tino Asprilla in attacco, un undici ricco di forza fisica e tecnica.

Ma tutto va storto, quasi in concomitanza con il declino di Pablo Escobar, come fosse un simbolo. Nel 1991 Pablo si era “consegnato” alle autorità, in  realtà si costruisce la sua propria gabbia dorata, la “Catedral“.

Nella prigione invita chi vuole, persino la Nazionale di calcio per giocare una partitella, tanto per capire quanto non ci fossero restrizioni nella sua reclusione nominale. È praticamente obbligatorio andare, anche Andrés che non vorrebbe è costretto. Altri sono un po’ più lieti, come Higuita, che (forse) a livello di immagine pagherà l’amicizia stretta con Escobar (quello sbagliato). Sarà anche arrestato per aver fatto da mediatore in un sequestro. Il carcere gli fa saltare i mondiali americani. Poi, quando l’estradizione negli Stati Uniti è imminente, Pablo e la sua corte scappano, ma la fuga termina a inizio dicembre 1993.

L’esordio dei Cafeteros a USA ’94 è da incubo: 1-3 con la Romania, eppure le occasioni da gol fioccano. Arrivano subito minacce di morte alla squadra, da parte del mondo delle scommesse clandestine. I calciatori e il mister Francisco Maturana si sono formati a Medellín o comunque in altre squadre di narcotrafficanti, sanno che non è uno scherzo. Barrabas Gomez non deve giocare, al suo posto tocca a Hermàn Gaviria, è il messaggio programmato sui televisori dell’albergo della nazionale, altrimenti tutti pagheranno con la vita.

Scendere in campo con questa pressione psicologica, con questa “mano negra” (“mano nera”) – come la definirà la stampa – sulle spalle è già aver perso. La partita con gli Stati Uniti del 22 giugno, da dentro o fuori, inizia con queste premesse. Anche stavolta la porta avversaria sembra stregata, la Colombia non trova il gol e al primo affondo gli Usa passano in vantaggio. Cross di Harkes e Andrés Escobar ha il massimo della sfortuna per posizionamento e tempismo. Tocca la palla e spiazza il suo portiere Oscar Cordoba. Autogol. Finirà 2-1 per gli States e la Colombia andrà a casa con una partita di anticipo.

L'autogol fatale di Escobar
L’autogol fatale di Escobar

Al momento dell’autogol accade qualcosa che non dovrebbe. Tutti si guardano terrorizzati, Andrés forse ha già capito tutto, peggio ancora lo capisce il suo nipotino davanti alla tv che dice alla madre, la sorella di Andrés: “lo uccideranno”. Una frase che a nessun bambino di 9 anni dovrebbe venire in mente. Ma in Colombia, all’epoca, non era così.

Andrés è ancora un puro, uno che vuole metterci la faccia. Tornato in patria ignora i consigli di chi gli dice di starsene tranquillo, chiuso in casa. Si sente in colpa, deve chiedere scusa al suo popolo e vuole farlo di persona. È il motivo che lo spinge a chiarirsi con chi lo insulta la notte tra il 1 e il 2 luglio, nel parcheggio di un locale di Medellín. Ad aprire materialmente il fuoco è la guardia del corpo di due fratelli affiliati ai Los Pepes, acronimo che sta per “perseguitati da Pablo Escobar”, rivali o ex amici dell’ormai defunto boss, certamente non meno feroci.

A 27 anni termina la vita di un promettente calciatore e ragazzo pulito, in procinto di passare al Milan, che in quegli anni vinceva tutto. Ironia della sorte, nemmeno un anno dopo Pablo e per mano degli stessi nemici del patròn. Nonostante Pablo non gli fosse mai piaciuto, perché era un valido motivo che dava fama sinistra alla sua Colombia. Il destino ha saputo essere cinico ad accumunare nel nome, nel contesto, nella vita e nella morte due persone che sarebbero state agli antipodi.


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