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Orizzonti Mediterranei, gli sbarchi e la violenza sulle donne

Il documentario inizia con una musica e un testo: “Dalla notte dei tempi tra i crocevia del mondo, uomini lasciano la loro terra. Lacrime, pericolo, fatica e violenze cercano un varco, mentre paure, sospetto e intolleranza erigono barriere. Ma quando, tra i crocevia del mondo o tra le rotte degli oceani, si muovono donne, il loro viaggio è diverso, diverso perché sono donne. Perché, dalla notte dei tempi, tra i crocevia del mondo, alle donne tocca la violenza, la devastazione fisica e morale capace di generare creature alle quali, poi, si farà fatica a dare il proprio amore”. Orizzonti Mediterranei di Maria Grazia Lo Cicero e Pina Mandolfo ci dice che gli sbarchi sono da tempo sinonimo di tratta di esseri umani. Commercio, sfruttamento, prostituzione. Lungi dall’essere finita, la schiavitù ha solo trovato nuove forme. Prima “i bianchi” se li andavano a prendere “i neri”. Adesso arrivano da soli, più comodo di così? Scappano da guerre, miserie, violenze, carestie. “Dopo il poco che vediamo in tv, pensando ai paesi dell’Europa come luoghi con maggiori diritti, vivere esperienze del genere è uno shock”, dice Isokè Aikpitanyi, scrittrice e attivista nigeriana. “Chi arriva da sotto il deserto del Sahara, in Nord Africa può subire discriminazioni per il colore della sua pelle”, racconta una sudanese, “in Libia si rischia l’arresto, gli uomini sono costretti a fare i militari, le donne sono violentate”, ma violenze e torture in carcere non risparmiano nessuno, sia uomini che donne raccontano di abusi sessuali, anche di fronte alla polizia. “Senza pietà. Sembrano animali”. Anche se gli animali di fatto non arrivano a cose del genere.

Slavery Today da libertyasia.org
Slavery Today da libertyasia.org

Ma è inevitabile: “alla morte scelgono la morte”, commenta Enza Malatino in un’intervista, psichiatra di Palermo e mediatrice fondamentale per la realizzazione del documentario. Per far capire quanto sia assurdo biasimare o mettersi contro persone che naturalmente, per istinto primario, fuggono dalle sofferenze sognando una terra più giusta che sembra esistere. “Che colpa abbiamo noi?” chiede una donna, “pensassero a loro, Italia, Francia, Spagna… dove sono?” A padri e mariti che ti picchiano, a uomini che ti costringono alla prostituzione, alla fame, le dittature, il fondamentalismo, la povertà, l’oscurantismo, le violenze sessuali e psicologiche… il tentativo di attraversare un deserto e un mare non sono niente a confronto. Quello che non sanno è che, se scamperanno al deserto, al cannibalismo, alle prigioni libiche e al viaggio in mare, in Italia saranno poi “accolti” in strutture in cui nel migliore dei casi saranno parcheggiati per mesi senza poter fare nulla, di fatto carcerati, nel peggiore saranno anche maltrattati, violentati e venduti al mercato del sesso e del lavoro nero. Come mai, e solo per certe persone, il destino non sembra cambiare mai? “Ricordo che quella donna non riusciva nemmeno a guardare in faccia il suo bambino, allora ho capito che probabilmente era frutto di una violenza”, racconta ancora la Malatino. Ma questo è solo il frutto, appunto, di un problema che nasce lontanissimo: la prevaricazione del “forte” sul più “debole”, la necessità ovvia e impellente di fuggire da ciò che fa male e l’intenzione attuale, tutta politica, di far finta di nulla. L’Europa continua a predicare bene e razzolare male, ciò che pure Cecile Kyenge nel film cerca di ribadire: “quando si arriva a Lampedusa si entra a Schengen che significa presa di coscienza, equa ripartizione delle responsabilità e soprattutto solidarietà, tema fondante dell’Europa”.

La tratta di esseri umani (da Italintermedia)
La tratta di esseri umani (da Italintermedia)

“Devi partire e basta, non c’è altra soluzione” racconta per esempio Rashida, fuggita dal Marocco, dal padre e dal marito violenti, dopo un esborso di 3mila euro nella speranza di farsi traghettare in Grecia, per ritrovarsi invece in Turchia, dove viene schiavizzata per otto mesi. Lasciata andare, viaggia tra la neve e gli stenti attraverso le montagne, verso la costa, mangiando e bevendo per terra, lasciando morti sul cammino. Qui riesce nuovamente a imbarcarsi, ma in Francia non trova un destino migliore… “Noi non siamo contente di venire qui, dovete cambiare domande”, continua la donna, inquadrata dalle spalle in giù, quella che si chiedeva dove sia l’Europa. “Noi siamo costrette, non contente. Pensate a quelli che rimangono lì, con i governi che ammazzano la propria gente. Nessuno sarebbe contento di vedere la propria sorella stuprata davanti agli occhi e le bombe anche di notte. La guerra fa diventare tutto nero. Voi non potete immaginare, ma noi bruciamo ogni giorno. Dentro quel mare c’è l’Africa che grida”. Isokè è l’unica donna nel documentario che si vede in viso: “quando cercai di scappare dalla prostituzione mi hanno massacrata con calci e pugni. È una cosa che succede spesso, ma talvolta qualcuno muore. Sono stata tre giorni in coma, ma quando mi sono svegliata l’unica cosa che volevo fare era scappare ancora di più, allora l’ho fatto senza guardarmi indietro”. Oggi aiuta altre ragazze che arrivano in Italia nelle stesse sofferenti condizioni.

La tratta delle donne italiane, un trafiletto comparso su Il Giornale d'Italia nel 1902
La tratta delle donne italiane, un trafiletto comparso su Il Giornale d’Italia nel 1902

Soprattutto, cerca di salvarle dai Cie e dai Cara. Sembrerebbe quasi un paradosso, ma se già “centri di accoglienza” era una definizione inappropriata, si rivelano addirittura luoghi facili in cui recuperare “merce umana”: “bastano le intercettazioni agli scafisti per rendersi conto”, dice Isokè, “per esempio quello che dice ‘anche i nostri sono arrivati’ e poi ‘state tranquilli perché sono al centro di accoglienza, sarà facile recuperarli’. Nessuna ragazza sa quello che le spetta una volta uscita dal centro, le caricano con una macchina e basta. Ma il pericolo non è solo fuori, alcune ragazze parlano di violenze anche da parte di uomini dentro il centro, ‘uomini con addosso divise’. Queste ragazze possono contare solo sull’aiuto delle amiche, delle famiglie italiane e, devo dire, anche degli ex clienti”. In tutta questa storia la figura migliore ce la fanno proprio loro, i clienti delle prostitute: lungi dallo stereotipo di essere i viscidi della situazione che sfruttano le donne, questi italiani, siciliani, uomini, possono essere più umani di chi dirige tutta la faccenda. Come quando la polizia se la prende col consumatore di mariujana (talvolta fino ad ammazzarlo!) invece che colpire diretto all’organizzazione. La stessa Isokè oggi è sposata con un italiano, un suo ex cliente.  “Sono stanca di vedere che non si decide mai niente di giusto, non c’è alcun interesse politico ad affrontare seriamente questo tema. Anche le ragazze che vengono riconosciute come vittime della tratta, spesso non ricevono sostegno adeguato. Metterle insieme a dei tossicodipendenti, per esempio, che senso ha?” Basterebbe chiudere Cie e Cara, organizzazioni nate dall’emergenza, poco efficienti e aperte alla criminalità, e trasformarli in Sprar che erano e sono i cari, vecchi centri, che esistono dal 2001, pensati apposta per questo, dare asilo, accogliere rifugiati. Perché di questo stiamo parlando. Tutte le associazioni di volontariato lo stanno chiedendo a gran voce, perché non si fa? “Donne e bambini non dovrebbero stare in queste strutture isolate”, dice Gemma Marino dell’Associazione Astra, “da tempo si constata con dei fatti che le donne sono anche oggetto di sfruttamento”. Isokè ce l’avrebbe pure una soluzione che ha lo stesso principio di quello che si dovrebbe fare, ma non si fa, col problema delle mutilazioni genitali femminili. Andare a salvare, ed è questa la parola magica, queste ragazze dal legame con la violenza e cioè da altre donne, più anziane, che probabilmente hanno vissuto lo stesso quando erano giovani. In Nigeria le chiamano maman. Sono loro a portare avanti certe tradizioni e sono loro ad aiutare la mafia nigeriana a gestire le ragazze. “Ma bisognerebbe salvarne almeno 10mila per spezzare il legame tra queste e i trafficanti”. Salvare, non colpire.

(al Rinaldi)

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