“Ma tu non sei rom… vivi in una casa e hai un lavoro”. Frasi del genere Sead se le sente dire spesso, in parte anche per l’accento napoletano che lo fa risaltare nella sua nuova vita a Rovigo. Per farsi accettare Sead Dobreva, 32enne di Pristina, ha solo dovuto costruirsi una vita normale, anzi speciale nella sua normalità. Perché non è sempre stata così. E ha meritato di essere raccontata nel documentario di Sergio Panariello Fuori Campo.
Sead nasce negli ultimi anni della federazione jugoslava, con la “sfortuna”di essere nella parte sbagliata, quel Kosovo che anche più della Bosnia ha sofferto un rapporto lacerato con il Governo centrale e che per questo ha vissuto un conflitto con strascichi più lunghi. Tuttora il Kosovo non è stato riconosciuto da tutti i Paesi, di fatto si è proclamato indipendente ma la Serbia lo considera ancora una sua provincia, magari con qualche autonomia particolare, questo sì.
La gestione repressiva della multietnicità jugoslava, in quella polveriera che sono i Balcani, non poteva durare, così quando scoppia la guerra la famiglia di Sead, madre e cinque figli dopo la scomparsa del padre, deve lasciare la propria casa e la vita di sempre. Destinazione Napoli, dove c’è già una zia di Sead che rende l’impatto con il campo rom di Scampia meno traumatico (per quanto possibile).
Campo rom e Scampia, un binomio da cui non ti immagini si possa uscire onesti. Sead inizia con l’elemosina, attività che gli caratterizza tutta l’infanzia. Non che volesse, la prima volta che vide la gente del campo tornare con tutte quelle monetine chiese, nella sua ingenuità, se non provassero vergogna. Probabilmente sì, ma la risposta fu che era l’unico modo per mangiare.
Tra gli alti e bassi dovuti all’intolleranza, Sead inizia il corso di mediatore culturale a 16 anni, pur avendo imparato a scrivere il suo nome solo a 14. Con le amministrazioni locali partono diversi progetti di inserimento, poi una famiglia del campo, implicata nella malavita, inizia a chiedere il pizzo, fino a sparare a Sead e altri parenti. Il trasferimento non è immediato, ma questo è il prodromo al secondo sradicamento. Dopo il Kosovo, Sead perde anche la seconda terra, quella Napoli che in un certo senso lo ha adottato.
Se non altro il saldo pagato dal Comune per i servizi sociali resi gli permette di comprarsi una casa. Sead mette su famiglia nel nord-est, a Rovigo, perché crisi o non crisi, vuoi o non vuoi, lì ci sono più opportunità di lavoro. Certo, i figli si lamentano della nebbia e si stupiscono quando il padre racconta loro che a Napoli, dove è cresciuto, questo strano fenomeno non si verifica mai. Però a Rovigo si è trovata quella tranquillità, quella normalità mai avuta. Oltre ad essere operaio, Sead è rappresentante sindacale. In pratica un rom cresciuto fra i partenopei difende i diritti dei rodigini. Con buona pace di una certa fazione politica.
I rom stimati in Italia sono 200 mila, di questi si calcola che solo 40 mila, appena un quinto, vivono nei campi. Eppure sono quelli che fanno notizia, l’immagine forte che offusca la “maggioranza silenziosa” per prendere in prestito le parole di Nixon. E le strutture hanno costi esorbitanti, centinaia di milioni l’anno, praticamente buttati: nessuno vuole i campi, né i rom che ci vivono, né le associazioni umanitarie, né l’Unione Europea che puntualmente ci condanna per questa segregazione su base etnica. Basterebbe investire in progetti di inclusione reale anziché ghettizzare in aree quasi sempre sperdute e senza servizi. Poi quando leggi delle speculazioni di “Mafia Capitale” subentra il disincanto, ma lo sconforto deve essere combattuto e superato, se ci si “abitua” a tutto non cambierà mai nulla.
Per questo Sead ha partecipato alla realizzazione del documentario, “per dire basta ai campi rom, il film smentisce amministratori e gente comune che dice che i rom non si vogliono integrare e non vogliono lavorare. Bisogna dare la possibilità a chi vuole di seguire una strada differente”.