“So benissimo che i soldi non fanno la felicità, quello che mi entusiasma è come la sanno imitare”, diceva Manuel Goreiro, meglio noto come Manolito, il personaggio di Mafalda iper-capitalista, sempre dietro al denaro. “Business oriented”, si direbbe nel linguaggio lavorativo di oggi. Vero, falso, la questione è troppo soggettiva perché ci sia una soluzione univoca.
Però ci si è provato eccome ad oggettivarla, gli economisti Betsey Stevenson e Justin Wolvers hanno pubblicato uno studio secondo cui “in tutte le nazioni del mondo i ricchi sono più felici dei poveri e la popolazione delle nazioni più ricche è più felice di quella delle nazioni più povere”. Scontato, specie quando si scopre che in realtà i paesi scandinavi non hanno il tasso di suicidi più alto come si crede, facendo saltare quella relazione ore di sole-felicità che trascende il benessere materiale. E che la Grecia sull’orlo del fallimento ha aumentato il medesimo indice del 35,7% in 3 anni. Anzi, strano che Stevenson e Wolvers abbiano impiegato dieci anni per ultimare la ricerca.
Conta soprattutto come i soldi vengono spesi, chiaro. Altrimenti la maledizione “ti auguro di spenderli in medicine” lanciata contro chi si odia non avrebbe senso. Quello che sorprende è che, secondo quanto riporta il professore di San Francisco Ryan Howell, la maggior parte predilige l’acquisto di beni alle esperienze, come viaggi, cinema, concerti e quanto possa arricchire il nostro bagaglio. Risultato che peraltro va a contraddire esperimenti precedenti, per il fatto che un oggetto è visto come duraturo mentre l’esperienza termina brevemente. “Le persone eseguono un calcolo razionale: ho risorse limitate, posso fare un viaggio o comprare uno smartphone. Il viaggio finirà, l’oggetto durerà a lungo”, spiega lo psicologo Thomas Gilovich della Cornell University. Però l’adattamento edonistico, continua Gilovich, “soddisfa una parte più ampia dei bisogni psicologici. Le esperienze di vita formano la nostra identità”.
Una chiave importante di lettura è la variabile tempo. Elizabeth Dunn, della University of British Columbia, invita a usare i soldi per… comprare il nostro tempo. “Non comprate una macchina lussuosa per avere sedili riscaldati durante il viaggio di due ore verso il lavoro. Comprate una casa più vicina al lavoro, per usare quell’ora di luce in più per giocare al parco con i vostri figli”. Per l’Università di Zurigo ci vorrebbe un aumento dello stipendio del 40% per compensare lo stress da pendolarismo.
Dalla Svizzera al Bhutan. L’unica cosa in comune che hanno questi due Stati è avere il 100% del territorio montuoso, per il resto sono agli antipodi. La terra delle banche contro una monarchia buddhista. Le priorità e i valori quelli no, non coincidono, tanto che il governo del piccolo Paese himalayano ha istituzionalizzato da nemmeno un lustro il parametro di Felicità Interna Lorda (Fil), che fa il verso al Pil. I criteri sono qualità dell’aria, salute, rapporti sociali e istruzione dei cittadini. Così pur essendo fra i più poveri del mondo, il Bhutan è il primo asiatico e l’ottavo planetario nella speciale graduatoria della Fil. Con l’approvazione niente meno che del Dalai Lama.
Anche noi abbiamo i nostri teorici che scindono materialismo e benessere, è il Movimento per la Decrescita Felice, attivo dall’inizio del terzo millennio, sostenitore della mancanza di relazione fra l’aumento del Pil e qualità della vita. Esempio più banale, il consumo di carburante quando si è in coda per le statistiche varrà in un modo, di fatto è solo uno spreco di risorse. In quest’ottica l’indirizzo giusto sarebbero l’autarchia e l’autoproduzione per evitare giri commerciali che incidono sul prodotto e sul suo prezzo. E di teorie del genere se ne trovano a bizzeffe, ovunque.
Del resto anche un re è stato visto piangere sulla sella, così tanto da bagnare il cavallo. Povero re (e povero anche il cavallo). E noi villan… sempre allegri bisogna stare.