Si avvicina il Natale del 1989, da poco più di un mese l’apertura del confine fra Germania Est e Ovest e l’abbattimento del muro di Berlino hanno praticamente sancito la fine del comunismo. Ma molto più importante, inizia una serie tv che rivoluzionerà il modo di fare cartoni animati: con l’episodio natalizio Simpsons roasting on an open fire, (Un Natale da cani nella nostra versione) prende il via la saga della (omonima) famiglia americana più famosa, creazione del genio di Matt Groening.
L’animazione perde quella carica ultra-moralista a stelle e strisce per cui c’è un protagonista a lottare contro il cattivo di turno, che fosse Topolino contro Gambadilegno o Superman contro Lex Luthor, in una dicotomia bene vs male retaggio della guerra fredda. La rappresentazione diventa specchio fedele (o molto più fedele) della realtà, per cui l’identificazione con i personaggi prescinde le qualità positive. Homer sarà anche pieno di difetti, ignorante, pigro, tendente all’alcolismo e spesso padre assente, ma come si fa a non volergli bene? Perché sotto sotto è un buono.
L’antieroe è roba vecchia di millenni, i Simpson non sono innovativi in questo. Ma hanno portato sugli schermi una struttura fresca, per l’epoca totalmente irriverente, basata sullo stereotipo. Prima di tutto verso gli statunitensi stessi, Homer e Marge possono essere gli americani medi di provincia, come buona parte del resto dei personaggi. Dal ricco senz’anima Mr. Burns al poliziotto incompetente Wiggum/Winchester, arrivando agli stereotipi etnici ancora poco sviluppati: gli italiani sono un cuoco (Luigi) e il mafioso Fat Tony, si vede qualche accenno di ebraismo nel clown Krusty e Apu è il classico stakanovista indiano, che starebbe 24 ore al giorno a lavorare nel suo Kwik-E-Mart (gioco di parole per quicky, rapido). Tutti ad ogni modo rientrano nelle caratterizzazioni più tipiche.
Con serie successive come South Park e Family Guy (I Griffin), il gioco è stato portato all’estremo. Se nei primi ’90 i Simpson venivano visti come radicali era solo perché erano stati i primi a rapportarsi con il pubblico in una certa maniera. Ora possono sembrare quasi datati, obsoleti. Ma il merito di aver spianato la strada a certi sviluppi è indubbio e rimarrà per sempre, sono stati i precursori di un umorismo animato graffiante e senza peli sulla lingua.
La famiglia dei Griffin, non è un mistero, copia lo schema dei Simpson: marito obeso e privo di cultura, moglie inspiegabilmente attraente, tre figli di cui uno molto piccolo, anche se Stewie punta a dominare il mondo mentre Meggie nemmeno parla. Ma l’uso dello stereotipo, soprattutto etnico, è stato esponenziale. È la colonna portante della trama del grosso degli episodi e di molte gag.
Uno dei primi esempi ha colpito le donne e le asiatiche, due categorie che, si ritiene, sarebbe meglio non si mettessero mai alla guida. Una donna dall’evidente accento asiatico taglia le corsie per evitare il traffico causando incidenti a ripetizione. Parte del successo di Family Guy deriva dall’essere politicamente scorretto, requisito che costò anche la chiusura dello show dal 2002 al 2005. Neri ed ebrei sono spesso sotto la lente di ingrandimento, i primi visti come potenziali criminali, i secondi per il proverbiale attaccamento al denaro.
Offensivo? Neanche un po’, non se si conosce la situazione alle spalle. Buona parte degli sceneggiatori sono ebrei, il creatore Seth MacFarlane è convinto sostenitore del Partito Democratico, si batte attivamente per i diritti delle minoranze e degli omosessuali, altri oggetti dell’umorismo, distorto questo lo concediamo, di Family Guy. Che sa adattarsi all’attualità, dai matrimoni gay al terrorismo islamico.
Anche South Park fa dello stereotipo – o lotta allo stereotipo, a seconda della prospettiva di lettura – una bandiera. Ancora più esplicita nell’episodio 14 della sesta stagione: Death camp of tolerance, in cui i ragazzi protagonisti si trovano rinchiusi in questo per imparare il valore della tolleranza. Si erano lamentati dei comportamenti estremi del loro maestro elementare Mr. Garrison, i genitori credono sia perché Garrison è omosessuale. Si scoprirà che agiva appositamente in maniera provocante per farsi licenziare e ottenere un risarcimento milionario, nessuna discriminazione quindi. E prima del campo, rappresentato come un campo di concentramento nazista, cosa meglio di una visita al museo della tolleranza? Fra le statue di cera ci sono l’ebreo avido (una costante), un nero con pollo e cocomero ma anche un cinese con la calcolatrice, perché lo stereotipo non è solo negativo, vedi la bravura in matematica abbinata agli orientali.
E il bello è che nell’episodio successivo, City Sushi, la guerra fra un ristoratore cinese e uno giapponese si chiude col suicidio del secondo, che volando da una torre con la spada infilzata nello stomaco urla: “nooo, that’s racial stereotipe”, (“nooo, è uno stereotipo razziale”), chiaro riferimento al suicidio rituale nipponico. Gay, musulmani, obesi, asiatici, poveri, italiani, neri, rednecks, messicani, nessuno si salva dalla lama tagliente di Trey Parker e Matt Stone. Nemmeno i vegetariani e i canadesi, sulla carta fra i più pacifici e innocui, anche troppo.
A questo punto ci si aspetterebbe una conclusione, un filo comune che riassuma il discorso e insegni qualcosa. Ma non c’è, visto che ognuno ha le sue idee ed è difficile cambiarle. Forse che tutto in fondo è risibile, come suggerisce l’insegnamento di qualche decennio fa di Umberto Eco (in collaborazione con Aristotele) nel Nome della Rosa, tornato di moda con l’attacco al Charlie Hebdo: I am Matt Groening, Seth MacFarlane, Trey Parker and Matt Stone.