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Keep calm and don’t blame islam

7 gennaio, è appena passata l’Epifania, nemmeno il tempo di riprendere i ritmi di lavoro regolare dopo la sbornia delle lunghe festività natalizie che il mondo è scosso dall’attentato alla sede del giornale satirico parigino Charlie Hebdo ad opera di un gruppo di fondamentalisti islamici ma di nazionalità francese, affiliati alla sezione yemenita di Al Qaeda.

Una delle conseguenze è stata il riemergere di teorie complottiste, che vedono finzione ovunque: del tipo, perché i terroristi hanno dimenticato i documenti in macchina, o la volante della polizia si è spostata quasi ad agevolarne la fuga? Perché non esce sangue dalla testa del malcapitato poliziotto Ahmed quando colpito dai proiettili ravvicinati dell’ak47? Come se fosse una sceneggiata con attori ben pagati volta ad azionare meccanismi come il maggiore controllo delle libertà individuali, sacrificabili per la sicurezza – forse solo la seconda parte è plausibile, vedi il Patriot Act post 11 settembre.

Dall’altra parte riemergono invece sentimenti islamofobi diffusi, che recuperano termini da guerra fredda come “scontro di civiltà” e presunte incompatibilità con i valori europei. Quindi impossibile la convivenza con una religione che mira alla distruzione del prossimo, brucia chiese, decapita innocenti, invia bambini nelle missioni kamikaze e nel privato del focolare domestico opprime le donne.

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La “nascita” di Zé Pequeno in Cidade de Deus

Per carità, sono tutte cose realmente successe, dalle persecuzioni dei cristiani in Nigeria per mano di Boko Haram al divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, dalle mutilazioni genitali femminili alle vittime dell’Isis, fino all’ultimo video in ordine di tempo del bambino di circa 10 anni che spara alla nuca di due presunte spie russe, condannate a morte dopo una confessione chiaramente estorta – ma nessuno fa paragoni con i cristianissimi minori brasiliani già nel narcotraffico e criminalità organizzata, stile Cidade de Deus.

Altra cosa è generalizzare in un unico calderone etichettato come “Islam”, o “Stati islamici”. Ignorando, o facendo finta di ignorare, che i musulmani sono circa un miliardo e mezzo nel mondo e la diffusione va dal nord Africa, all’Africa centrale, Medio Oriente, Asia centrale, subcontinente indiano (Bangladesh e Sri Lanka), fino all’Indonesia, quindi sud-est asiatico. Più, per le migrazioni o conversioni, in tutto l’Occidente. La religione sarà la stessa, ma la storia, la civiltà, la cultura, le tradizioni dei popoli non possono non influire, un bengalese è diverso da un senegalese e da un arabo come uno spagnolo è diverso da un canadese o da un neozelandese.

Fare le opportune distinzioni, circoscrivere i problemi a determinate realtà è cosa buona e giusta, per rimanere nel glossario delle confessioni. Un esempio eccellente di come affrontare la questione lo dà lo scrittore e professore universitario di Scrittura Creativa americano-iraniano Reza Aslan, intervistato dalla Cnn in quanto esperto di teologia.

Primo esempio, le mutilazioni genitali femminili. Rispondendo al comico Bill Maher – evidentemente non siamo gli unici a prenderli troppo sul serio – all’attacco dei maomettani ben prima dei fatti del Charlie Hebdo, Reza Aslan sottolinea come la pratica sia “un problema africano e non islamico. L’Eritrea ha quasi il 90% di donne mutilate ed è un paese cristiano. L’Etiopia ne ha il 75%, ed è un paese cristiano”. Poi succede anche in Somalia e nella regione subsahariana, ma in nessuno dei paesi a maggioranza musulmana dell’Asia è una piaga.

20141226_donna-volante-arabia-sauditSi contribuisce a fomentare l’idea che le donne sia maltrattate nell’islam, “è certamente vero in alcuni paesi, come Iran e Arabia Saudita. Ma sapete che sette donne sono state elette come capi di Stato nei paesi musulmani? Quante ne abbiamo avute negli Stati Uniti? È facile dipingere tutto con lo stesso pennello e dire che il divieto di guida per le donne in Arabia Saudita è rappresentativo dell’islam. Rappresenta solo l’Arabia Saudita”.

Come se l’Arabia fosse la normalità e non un paese estremista, “forse il più estremista, nei mesi in cui abbiamo parlato dell’Isis in Arabia sono state decapitate diciannove persone. A nessuno sembra interessare perché si preserva l’interesse nazionale” – è uno dei partner privilegiati dello zio Sam, con investimenti che all’epoca del documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11 arrivavano al 7% del Pil Usa.

“L’islam promuove la violenza?” incalza il giornalista Cnn. “L’islam non promuove la violenza o la pace. È solo una religione e come le altre nel mondo dipende da come ognuno contribuisce. Se sei una persona violenta lo sarà anche il tuo islamismo, ebraismo, cristianesimo, induismo. Ci sono monaci buddisti a Myanmar che massacrano donne e bambini. Il buddismo promuove la violenza? Certo che no. Le persone possono essere violente o pacifiche e dipende dalla politica, la società, il modo di vedere la comunità e se stessi”.

Michael Moore per Fahrenheit 9/11
Michael Moore per Fahrenheit 9/11

Peccato che la seconda giornalista non colga appieno le parole di Aslan, continuando ad usare il termine “paesi musulmani”. “La lapidazione, come altre pratiche barbariche, deve essere condannata da tutti”, continua Aslan, “le azioni di individui, società e paesi come Iran, Pakistan e Arabia Saudita devono essere condannate perché non sono da XXI secolo. Ma dire ‘paesi musulmani’ come se Pakistan e Turchia fossero uguali, Indonesia e Arabia fossero uguali, che quello che accade in regimi autocratici sia lo stesso in tutti gli altri paesi è francamente, e uso sul serio questo termine, stupido”.

“Questo tipo di semplificazioni porta solo più rischi. I problemi ci sono, bisogna affrontare l’Isis, Al Qaeda, gruppi militanti come Hamas, Hezbollah, i Talebani. E non aiuta quando, anziché parlare di conflitti razionali e muovere critiche razionali ad una particolare religione, cadiamo in certi tranelli”.

 


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