Si sa, ogni medaglia ha due facce e ogni cosa contiene in se due opposti, Lao-Tzu ci si è costruito un nome millenni fa con la storia dello yin e yang, da cui taoismo e confucianesimo hanno attinto a piene mani. Così per un Jep Gambardella, incarnazione del giornalista che frequenta i salotti bene e scrocca banchetti pantagruelici ai vernissage protagonista de La grande bellezza, c’è un signor nessuno che scrive gratis o quasi. Magari sotto tiro di spari e granate in Medio Oriente. È la dura vinta dei freelancer, l’altra faccia del giornalismo. Quella povera, quella che non è parte della casta.
#ZeroPotere è il documentario realizzato da Marina Piccone che raccoglie le storie di diversi “invisibili” che esclusivamente per passione forniscono servizi ai media del mainstream accollandosi ogni rischio, dall’infortunio alla vita perché tanto non c’è copertura assicurativa di alcun tipo. E accollandosi le spese in anticipo, sperando di racimolare il giusto almeno per rientraci e quindi reinvestire nel progetto successivo. La parola profitto è sconosciuta da queste parti.
L’associazione giornalistica Lsdi – non una droga ma acronimo di Libertà di stampa, diritto all’informazione – ha stimato che gli autonomi, cioè i freelancer, sono i 2/3 del totale, con compensi 6 o 7 volte inferiori ai contrattualizzati, a loro volta nemmeno messi sempre troppo bene: l’equo compenso è stato recentemente fissato a 20,8 euro ad articolo, non male se non ci fosse il limite di 12 pezzi mensili, superato il quale la paga si assottiglia progressivamente. E questo se hai un contratto, anche co.co.co, figuriamoci chi deve trattare di volta in volta con un editore.
Tutti concordi, gli intervistati dalla Piccone: l’Italia è uno dei casi peggiori del mondo, dalle altre parti è l’acquirente che chiede “quanto vuoi?”, in Inghilterra il freelancer, proprio perché non protetto da nessun contratto, è a rischio e viene pagato di più. Ma è anche vero che abbiamo altre anomalie, come il numero di tesserati. Da noi sono 112 mila, praticamente uno ogni 526 abitanti, contro un 1 su 1700 in Francia e addirittura 1 su 5300 negli Stati Uniti. È una mera legge di mercato, c’è saturazione, ed è questo che spinge ad accettare compensi sotto l’equo stabilito (4 centesimi a riga, 5 euro lordi ad articolo) tanto per uno che rifiuta ce ne sono mille pronti a prenderne il posto. Gli attivi con reddito sono appena 47 mila. E in troppi vedono cifre intorno ai 5000 euro lordi l’anno.
Prendiamo le zone di guerra: le assicurazioni sulla vita non sono stipulabili o comunque costano troppo per la pericolosità dell’area, un giubbotto antiproiettile supera i 1000 euro, poi ci sono viaggi aerei, spese telefoniche, per traduttori e accompagnatori, senza menzionare il cibo e un giaciglio. “Non abbiamo potere contrattuale”, racconta Andrea De Georgio, “per i servizi da Timbuctù in pieno conflitto prendevo 32 euro netti da quotidiani nazionali”.
Poi c’è chi riconsidera al ribasso gli accordi già presi, qualcuno non ha paura di fare nomi. “La mia peggiore esperienza è stata al Fatto Quotidiano”, ricorda Barbara Schiavulli, “prima ho combattuto per essere pagata, poi per essere pagata quanto concordato, infine non si sono più fatti sentire per un anno”. Così anche per Roberto Tofani, “ho dato il mio contributo, più il nulla. Sono andato in redazione e mi hanno detto che le cifre non erano state approvate. Ti senti tradito”. Ovviamente non è solo il Fatto, il sistema è comune, dal Messaggero in giù (o su). Se ti dicono che non taglieranno è perché proprio non chiameranno più.
Però qualcosa da rispettare c’è, le scadenze per le consegne, perché l’importante è riempire spazi, la qualità viene dopo, così come l’attendibilità. “Nella mia redazione non sapevano nulla di politica estera, avrei potuto inventarmi degli scoop perché nessuno controllava”, dichiara Cristiano Tinazzi. Altre volte invece si aspetta che siano le agenzie o network più famosi a dare la notizia “ufficiale”, sennò non ci si crede.
Tinazzi racconta alcuni episodi che ben chiariscono il livello generale, sempre accaduti in Libia, durante la ribellione contro Gheddafi. Prima si era sparsa la voce delle fosse comuni con decine di migliaia di morti, solo perché su Youtube girava un video con tumuli freschi. “Un’agenzia di stampa importante diede la notizia, una concorrente più piccola la seguì a ruota pur sapendone la falsità”. Peggio ancora una giornalista britannica durante il soggiorno a Sirte: “la Bbc disse che la città era presa dai ribelli, noi dall’alto non vedevamo fumo, segni di esplosioni o altro, la collega piangeva dalla paura di essere catturata”, credeva più alla Bbc che ai suoi stessi occhi, in realtà “il fronte era a 150 km”.
Si crea un cortocircuito per cui si fa affidamento sulle agenzie senza sentire chi sta sul posto, “solo la francese Ap mi ha contattato”, prosegue Tinazzi, “nessuno lo ha fatto dall’Italia”. “Era così anche in Iraq”, conferma la Schiavulli, “si faceva una media dei morti prendendo i dati dei principali quotidiani. Un’altra volta invece ero intervistata da una radio che mi ha fermato mentre stavo dando una notizia in anteprima perché non era ancora uscito il dispaccio dell’Ansa”. E chi ci rimette più di tutti è il fruitore, che si abitua a determinati standard per cui “qualunque cosa appena sopra è considerata incredibilmente valida”, aggiunge Nicola Caforio. Non stupisce che si cerchi controinformazione su internet, sempre col rischio di imbattersi nei cosiddetti fake, informazioni false.
Con il tempo – e la crisi – la figura del freelancer è andata cambiando e non solo dal punto di vista economico – “fino agli inizi del 2000 si viveva bene”, asserisce Fabio Gibellino. Sono aumentate le competenze richieste, “sei operatore, fonico e giornalista” spiega Tofani, “per reggere microfono, telecamera, macchina fotografica e taccuino dovresti essere la dea Kalì”, ironizza De Georgio. “In altri paesi si fa meno e meglio, da noi si cerca di fare tutto ma male”, commenta la Schiavulli.
Appurato che di solo questo non si riesce a vivere e che tutti hanno anche altri impieghi, chi intende intraprendere questo tipo di carriera ha un approccio fra lo speranzoso e il disincantato: “non so se sarò mai assunta in una redazione, tutto cambia, cercherò di imparare e raccontare”, si auspica Giulia Perone, mentre Simona Aronica spera “di avere almeno la possibilità di provare”.
Con certe premesse viene da chiedersi il perché si voglia entrare in una via quasi sicuramente senza sbocchi, “tutti mi dicono che sono pazzo”, ci scherza De Georgio, “converrebbe fare il cameriere ma se parlo con un nomade del deserto che fugge da Al Qaeda mi sento realizzato”. Una passione che emerge anche nella Schiavulli, “trasmettere le emozioni che provo a chi legge non ha prezzo”.