“Il miglior film del 2013”. Quentin Tarantino non usa mezze misure per commentare Big bad wolves, pellicola israeliana firmata Aharon Keshales e Navot Papushado dalle tinte horror/thriller. L’affermazione è forse un po’ avventata, visto che nello stesso anno sono usciti il premio Oscar Dallas Buyers Club, Her, The wolf of Wall Street – sempre lupi ma in questo caso intesi come sciacalli della finanza, non come uomini violenti portati all’azione solitaria.
Keshales e Papushado hanno però il merito di portare i crismi dell’horror in una realtà abituata a ben altri problemi di natura geopolitica. Niente coloni e colonizzati, niente vittime della guerra, palestinesi o soldati troppo giovani per sacrificarsi a una causa. Né saggi rabbini che a suon di massime ancestrali sono in grado di risolvere problemi esistenziali, con quella carica ironica che la religione ebraica – ammettiamolo – ha molto più delle altre.
Del resto non è nemmeno facile sfruttare uno Stato grande poco meno della Lombardia e arido pur nella sua fertilità superiore alla media regionale per addentrarsi in un genere che, vuoi o non vuoi, qualche bosco deve pur mettere in mezzo. Pensiamo ai “grandi classici” della fantasia o della realtà, dal nostrano mostro di Firenze al finale di Shining, la fitta vegetazione è la cornice perfetta per tramare rapimenti, torture, uccisioni.
L’ambientazione urbana di Big bad wolves è così traslata nella seconda parte di film in un villino periferico con uno scantinato che, con appropriate colonne sonore e inquadrature, è da brivido. Isolato alla perfezione, è adatto allo scopo: costringere alla confessione un uomo appena scagionato dall’accusa di omicidi a sfondo pedofilo di diverse ragazzine, non prima di avergli inflitto le stesse sofferenze.
Di certo non è un film che porta ad empatizzare, ed è quasi paradossale. Non ci si riesce appieno con il presunto pedofilo catturato, nonostante l’aspetto gentile e innocuo – “ecco perché fa male alle bambine” sostiene l’accusatore – né con chi da vittima diventa aguzzino, il padre di una delle piccole trovate decapitate dal mostro: troppo preso dalla sete di castigo e troppo poco dal lutto, fa tutto con una freddezza calcolata, una cura che non lo rende beniamino della Vendetta – per chi, come il Conte di Montecristo, crede in questa divinità paganissima. Entrambi sembrano giocatori di una partita a scacchi, nessuno appare realmente spontaneo. Meglio il terzo protagonista, il poliziotto Micki, che farà anche errori a ripetizione, ma almeno segue l’istinto.
“Some men are created evil” recita il sottotitolo della locandina. Alcuni uomini sono stati creati malvagi e qui la distinzione fra bene e male è labile, la violenza il filo conduttore. A differenza di altre pellicole di genere è meno presente il senso di espiazione. Spesso accade che il maniaco omicida punisca colpevoli di qualcosa, l’esempio è So cosa hai fatto, (I know what you did last summer). L’unico senso di colpa è del padre/torturatore, che il giorno del rapimento della figlia era troppo impegnato a tradire la moglie per andarla a prendere la pargola a scuola, tragica fatalità costata fin troppo. La penitenza riparatrice, tipica dell’ebraismo come del cristianesimo, in qualche modo emerge sempre.
Tirando le conclusioni, non sorprende che Tarantino sia rimasto affascinato dal film, con il suo giusto mix di violenza e sarcasmo – non mancano scene divertenti. Sicuramente si tratta un lato di Israele poco esplorato, indipendentemente dal numero o frequenza di casi del genere, ma almeno si lasciano i soliti binari di occupazione dei territori ed antisemitismo – c’è la figura di un misterioso arabo che gira a cavallo ma con l’i-phone, apprezzabile perché ininfluente o quasi sulla trama. La brutalità non è però del tutto scollegata dalla cultura.
Prendiamo un Pacciani qualsiasi, ignorante come pochi, senza nozioni di alcuna materia. Uno così “la butterebbe in caciara”, come dicono a Oxford. Ecco perché al processo si insinuò la presenza di complici con maggiori nozioni di anatomia, come Jack lo Squartatore in pratica. Qui tutti sanno cosa fare e come farlo, quali sono le tecniche per spaventare e far parlare chi non vuole farlo, anche come resistere al dolore se vogliamo, frutto di un addestramento e un militarismo imperante. Che rimane anche da anziani. L’horror e la paura saranno anche universali, ma a loro modo anche questi risentono del background, di particolari sfumature che caratterizzano. Ed è bello così.