Se a un italiano viene bene una cosa è la lamentela. Lamentarsi per l’italiano è uno sfogo mono o dia-logico sull’insofferenza che nasce dal vedere che niente va come lo si immagina. Di solito si inizia dal mattino. Può essere un autobus che non arriva, e poi arriva strapieno che non riesci a entrare. Cose semplici. O più complesse. Come un annuncio per l’ennesimo, spudorato “lavoro gratuito”, il nuovo ossimoro del nuovo millennio. Si prosegue al pomeriggio, dove magari si è andati al Comune a presentare un nuovo progetto di impresa e quelli ti rispondono “bella idea, ma non si può fare perché non è prevista”. Allora capisci il soffocamento. Finisci a sera dove qualcuno è in una piazza che si lamenta dello schifo di bottiglie, bicchieri e quant’altro sugli scalini della fontana, ma – toh – ha lasciato la stessa merda a terra. Mentre qualcun altro ha appena visto la sua casa o il suo negozio distrutti da un fiume in piena, ancora una volta, perché inspiegabilmente niente è cambiato da allora a oggi. Per questioni di contenzioso. Mentre la gente vera, quella che agisce fuori dal burocratese, va avanti a denti stretti, sentendosi sempre più abbandonata.
Insomma gli italiani hanno tante e buone ragioni per lamentarsi. Ragioni spesso quotidiane, ripetute, che farebbero incazzare chiunque. Perché è nella reiterazione di ciò che non va che la lamentela cresce e si alimenta. La prima volta potrai pure pensare, andrà meglio alla prossima. E invece va sempre uguale. E così le lamentele si moltiplicano, diventano dialogiche, il tipico discorso da bar o da bus o da amici che non si vedono da una vita. Trasformando alla fine ragioni vere in chiacchiere stereotipate, della serie “in Italia fa tutto schifo”.
Ma (c’è sempre un ma) è qui che scatta il paradosso. Se gli italiani si lamentano è perché altri italiani hanno fatto qualche casino. Dunque ci lamentiamo in continuazione di noi stessi. Ma senza fare mai nulla per cambiare. Altrimenti non staremmo sempre qui a lamentarci. E così via. Un circolo vizioso che sembra stringere gli italiani nell’apatia e nella paranoia.
Io non credo nella cazzata dell’Italia buona / l’Italia cattiva. Semmai credo di più all’italiano medio di Maccio Capatonda. Comunque il fatto è che siamo tutti italiani e tutti responsabili di ciò che facciamo. Dal mattino a sera. Oggi un’amica e collega pubblicava: “E via così nell’era del pressappochismo professionale”. Ho solo pensato: è vero.
Mi ricordo un fumetto, Asterix e le 12 fatiche. L’ottava era un improbabile giro in un palazzo dell’amministrazione pubblica romana, già monumentale. “La prova consisteva nel farsi rilasciare un lasciapassare A38 presso la casa che rende folli. Fra un’interminabile serie di rimandi e formulari, Asterix e Obelix si ritrovano sull’orlo di una crisi di nervi, da cui si salvano solamente grazie a un’intuizione di Asterix, che chiede a uno sportello il nuovo (inesistente) lasciapassare A39: questa richiesta ha un effetto spiazzante su impiegati e funzionari che impazziscono della loro stessa burocrazia“. Quindi Asterix – che ha capito come funzionano le cose – si rivolge direttamente al Prefetto, incontrato nei corridoi, ottenendo finalmente il lasciapassare.
Un giorno ho fatto anch’io un salto nei cunicoli dell’anagrafe comunale. Ho speso una mattinata, su e giù per le scale, come Asterix e Obelix, a cercare uffici inesistenti e impiegati in ferie, a compilare improbabili liste di cognomi scritti a penna su fogli volanti poggiati su banchi divisori tra un corridoio. Sembrava di stare a un’occupazione. Tutto questo perché voci di corridoio dicevano che ci avrebbero chiamato, “Ma chi? Non si capisce niente!” Fino all’amara scoperta – seppur la senti sempre sottopelle – di aver atteso la fila sbagliata, mentre donnine, in minigonna loro, vengono fatte passare avanti da chi ci capisce della situazione, “signorì, io ormai qua ce abito, se lei pija sto corridoio, c’è ‘na porta dietro quell’armadio, lo vede? Parli con quella signora, se faccia servì”. Per poi scoprire, veramente alla fine, sempre grazie all’intervento divino della compagna di fila, che, comunque con un pizzico di goduria perché hai da soffrì pure tu, ti dice una frase ancora più amara: “guarda che era semplice, guarda che dovevi solo andare a quell’ufficio là e consegnargli sto foglio eh”. Certo, poi richiedi al piano terra: “scusi ma quell’ufficio là dov’è?”, “Quale ufficio?” e la realtà non è così distante dal fumetto. “Era semplice”.
Ma forse c’è un modo per far sì che la nuvola tossica della lamentela non inghiotta tutto. Semplificare. Renzi una cosa doveva fà. Si faccia in modo che gli italiani passino meno tempo a incazzarsi e lamentarsi. Si dia loro, a noi, la possibilità di aprirci liberamente alla nostra creatività e smetteremo di lamentarci. È semplice. Un circolo virtuoso.