Miglior nuova serie tv ai Writers Guild Awards 2014, stesso riconoscimento al Roma Fiction Fest, miglior regia per i primi due episodi a David Fincher – quello di Fight Club e Seven, solo per citarne alcuni – innumerevoli nomination in altrettante premiazioni più o meno famose. House of Cards ha conquistato tutti fino al presidente statunitense Barack Obama, che alla vigilia della seconda stagione a febbraio, in Italia è approdata solo da pochi giorni, ha invitato gli utenti twitter ad evitare spoiler, cioè anticipazioni sui nuovi episodi.
Gli ingredienti sono abbastanza classici: il protagonista è Frank Underwood, interpretato da un certo Kevin Spacey, politico senza scrupoli disposto a passare sopra tutto e tutti per arrivare al suo obiettivo, cioè la Casa Bianca. Anche la sua vita familiare è già vista, la moglie Claire è più presa dal lavoro che dal resto, i due non hanno nessuna voglia di avere figli e si tradiscono come non ci fosse un domani. Insomma, una coppia di “squali” senza sentimenti o quasi.
Il contorno rientra in altri cliché, con Zoe Barnes, giornalista rampante anch’ella affamata di carriera, disposta a concedere favori sessuali al politico Underwood in cambio di notizie sempre fresche e riservate; Lucas Goodwin, collega innamorato della Barnes, più tranquillo ma disposto ad aiutare la sua bella; Peter Russo, candidato governatore con un passato di alcol, droghe e prostitute, usato a piacimento dall’entourage governativa e Doug Stamper, l’impiegato servizievole dei poteri forti, sempre fedele alla causa.
Niente di nuovo si potrebbe dire, eppure la qualità è indiscutibile. E sarebbe riduttivo parlare della bravura di Fincher o di Spacey, segno di un’inversione di tendenza nelle serie tv. Una volta queste lanciavano nuovi attori verso la fama, vedi Jennifer Aniston che dopo Friends ha spopolato in diverse pellicole. Ora Scorsese gira serie, Spacey vi recita, così come Steve Buscemi in Boardwalk Empire – la saga sul proibizionismo in cui compare anche Capone – e Matthew McConaughey in True Detective. Non solo gente che si può malignare sul viale del tramonto, se c’è un fresco premio oscar – per Dallas buyers club.
Il sito telefilm-central.org riporta altri motivi che hanno appassionato i teledipendenti: l’adattamento alla realtà americana di una serie inglese di nascita si presta alla realtà moderna – si tratta di un’eccezione, visto che generalmente sono gli originali ad essere di livello superiore – e la caduta della “quarta parete”, cioè quello “schermo che impedisce ai personaggi di interagire con lo spettatore”. È vero che Manzoni si rivolgeva direttamente ai suoi lettori nei Promessi Sposi, fingendo che il manoscritto fosse stato ritrovato e non suo, ma non era così diretto come il nostro Underwood, che non si limita a raccontare i retroscena, lo fa guardando la telecamera, come se tutto il resto, la scena, non esistesse.
La cospirazione, ad ogni modo, piace sempre. Trame che dipingono il governo, soprattutto a stelle e strisce, come un organismo onnipotente stuzzicano la fantasia di chi si diletta a dipingere scenari ai limiti della realtà, non sempre esagerati per carità, ma spesso sì. South Park andava oltre: secondo il cartone il governo stesso trarrebbe autocompiacimento nel farsi credere più potente e maligno del dovuto – l’episodio si riferiva all’undici settembre, con l’amministrazione Bush sotto accusa per l’attentato. Perché fomentare la paura aiuta a tenere a bada la popolazione. E il diavolo magari non esisterà, ma è meglio far credere in lui.