C’era una volta il gangster da film, il boss che incute timore al solo aspetto, da anziano come un Vito Corleone, figuriamoci da giovane come i Pacineschi Tony Montana/Scarface e Carlos Brigante. E c’erano una volta località “classiche”, ovvero gli Stati Uniti d’America. Si trattava sempre di migranti, ispanici e irlandesi quando non erano italiani – e poi ci si lamenta delle scarse esportazioni del made in Italy! – che trovavano terreno fertile per poter proliferare, in un mercato sempre attivo.
In ordine di sparizione, dark comedy di Hans Petter Moland con il “nostro” Bruno Ganz, ribalta molti cliché. A partire dall’ambientazione, la Norvegia, terra famosa più per il baccalà ed il salmone affumicato che per la criminalità organizzata. Del resto quando il tenore di vita è mediamente alto, quando c’è welfare – discorso che tornerà – si ha meno necessità di arrangiarsi, di dover “svoltare” un pasto, di buttarsi nell’illegalità pensando che il lavoro onesto, SE si trova, spacca la schiena ma non permette di togliersi sfizi. Ma si aprirebbero discorsi socio-politici troppo seri, torniamo al film.
Che appunto di essere troppo serio non ha la pretesa, leggendo critiche e sinossi si notano riferimenti a Tarantino, da cui in effetti trae spunti, a partire dal tasso di mortalità superato solo da Kill Bill. Ma anche per la caratterizzazione ben contornata ed ironica dei personaggi, se pensiamo a Le Iene e Pulp Fiction sono tutti ben definiti, da Mr. Blonde a Mr. Wolf. In questo rientra l’idea di affibbiare un soprannome a tutti, parodia di un’usanza dei film americani. O della realtà di casa nostra, vedi Francesco “Sandokan” Schiavone.
Il capo di tutto è “Il Conte”, figlio d’arte se così si può dire. Giovane rampante, re del pane secondo i quotidiani, vegano, elegante, raffinato finché non si tratta di uccidere chi si mette contro di lui o chi dei suoi può non tornargli utile alla causa, quotidianamente alle prese con la separazione dalla moglie e l’affidamento del bambino, nutrito solo a frutta e verdura rigorosamente biologica. Nella Chicago alcolizzata di Capone avrebbe sfigurato, come minimo. Segni della società moderna, che poi è un fulcro (secondario) del film.
“Società moderna”, il dialogo di due esponenti della banda rivale, di serbi, ricorda per stile quello di Vince e Jules all’inizio di Pulp Fiction, gangster che in macchina, aspettando di agire, parlano del più e del meno. Nasce dalla vista di una donna che raccoglie gli escrementi del cane, assurdo per i due balcanici. “E che ci fanno?” si chiedono. Per far capire il tipo di vita il più inserito nella realtà norvegese – l’altro è appena arrivato – racconta della vita in carcere: “servono pasti caldi e ottimi, niente stupri, guardie gentili”, dice mostrando la dentatura rimessa a nuovo dall’ospedale circondariale. Incredibile.
Dall’altra parte emergono invece gli stereotipi negativi sui balcanici da parte del “Conte”, che continua a riferirsi ai serbi come “albanesi” per tutto il film, neanche fosse la stessa cosa. Muratori, ma anche un po’ pastori, parafrasando dal testo originale dediti all’intrattenimento amoroso con animali quali maiali e capre, in breve troppo grezzi e primordiali per i suoi canoni. Ma ne ha anche per i cinesi – un serial killer ingaggiato per uccidere il “Conte” è danese ma di etnia orientale – ovvero “i giudei dell’Asia”, più dediti alla ricerca di denaro che dell’etica. Gente che rompe il primo contratto di omicidio per ottenere soldi anche dalla presunta vittima non ha motivo di continuare l’esistenza, è troppo per la “sua” Norvegia.
La socioeconomia dei gangster norvegesi Un altro dialogo abbastanza tendente al surreale considera gli aspetti economici/antropologici/climatici di questo pianeta. “O hai il caldo o hai il welfare”. Aristotele sarebbe d’accordo, Amartya Sen e John Maynard Keynes forse rabbrividirebbero (il secondo si rivolterebbe nella tomba) all’affermazione, tutto sommato i dati parlano chiaro. Nel nord Europa lo stato sociale è sviluppato più che altrove, più di dove ci sarebbe effettivamente bisogno – l’eccezione può essere il Venezuela – cioè dei posti “caldi”, dove “basta raccogliere una banana e sei a posto”. Effettivamente se la natura è più clemente servono meno accorgimenti artificiali, è quasi convincente…
Poi ci sarebbe da parlare della trama, senza andare sullo spoiler ovvio. Può il cittadino dell’anno di un paesino immerso nella neve, età pensionabile, organizzare da solo una scalata per arrivare al capo dell’organizzazione che ha ucciso il figlio, reo di aver fatto sparire una partita di cocaina? Possono essere gli “scagnozzi” così sprovveduti da farsi sopraffare? Pesci piccoli, vero, ma se pensiamo a una Scampia, Corleone, Sinaloa o Medellin che sia suona strano, ma magari in Norvegia anche i criminali sono meno… criminali.
Per quanto l’apertura mentale, quando si arriva all’omosessualità, è sempre la stessa. La storia fra due assistenti del “Conte” deve essere tenuta nascosta anche in un Paese avanti per diritti civili come la Norvegia. Ma i gayngster (parola rigorosamente inventata) sono un bell’antistereotipo, difficilmente si vedrebbero in un’opera di Coppola, De Palma, Scorsese, più attinenti al copione tradizionale. Al massimo si parla di “lobby gay” nella moda, spettacolo, musica, come dire una “mafia” che non si sporca le mani. E che sicuramente rovina il tessuto sociale molto meno – tranne se sponsorizza un Mengoni!
La dedica finale va alle morti di personaggi secondari (e a scendere) in film del genere, nella saga di Austin Powers il tema era toccato: non sappiamo niente delle loro vite, interessi, famiglia ed amici. Tutti si interessano all’eroe ed al “cattivo” per eccellenza. In ordine di sparizione rende loro giustizia, mettendo il nome del trapassato in tempo reale, in una specie di iscrizione virtuale sulla base del monumento al milite ignoto versione illegale. Riposate in pace, random heroes.