Splendore contro degrado, amore per i monumenti contro l’incuria nel lasciarli anneriti dallo smog, la spiritualità del Vaticano contro l’amoralità del potere, arroganza, saggezza popolare, senso di distacco. Dove sta la verità? “Non si sa”, sostiene Carlo Verdone intervenuto alla presentazione del libro Roma è una bugia, edito Laterza,dell’amico ed ex compagno di liceo Filippo La Porta. Gioachino Belli raccontò la miseria e la popolarità anche delle alte sfere ecclesiastiche, con il papa Sisto cui viene fatto dire, in visita ai Fori Imperiali, un nobile ma ignorante “belli ‘sti serci”, voce ed accento alla Aldo Fabrizi.
“Lo scetticismo sopravvive in generazioni come la mia”, continua Verdone, “fortunata a vivere un periodo di fermento, dignitoso, senza la cultura del sospetto contro tutti, a partire dal vicino. Anche la delinquenza aveva un che di poetico, nello stile della banda del buco”.
Roma è una “città di contrasti, inganna di continuo, promette una felicità illusoria che non mantiene e nasconde l’eternità nell’effimero”. A partire da piazza del Popolo, uno dei punti di ritrovo più rappresentativi: il nome non indica i cittadini, la gente, ma è un’alterazione del termine latino “pioppo”, spiega Filippo La Porta nel suo ritratto della Capitale misto all’autobiografia e in un certo senso alla vita di tutti gli abitanti della Capitale. In un palcoscenico che consente di recitare “tutte le parti, tranne l’essere se stessi”.
La terminologia Le contraddizioni si riflettono sul modo di parlare, nel mix di accettazione e maleducazione c’è spazio per il “chettefrega” indifferente come per un “anvedi” che al contrario palesa stupore, “è una spia preziosa per capire la mentalità”. Anche nel turpiloquio, lo “sti cazzi” che nel resto d’Italia è un’espressione di meraviglia e sorpresa qui diventa menefreghista, ma “è un indifferentismo morale, viene usato in certi casi”, La Porta lo ricorda ad esempio detto dopo la morte di Priebke, “ma mai sarebbe uscito per l’edicolante di Testaccio” passato a miglior vita nello stesso periodo. “Riferito ai potenti, contiene un nucleo critico al suo interno”.
L’umorismo La Porta descrive un simpatico aneddoto sempre legato al linguaggio, quando un anziano barbiere del centro, vedendo sfrecciare per lo stretto vicolo una moto di grossa cilindrata commentò con un “questo all’anagrafe l’hanno segnato a matita”, affermazione di una “saggezza disincantata” che “a Torino, quando l’ho raccontata, non è stata capita. Mi hanno chiesto di spiegarla”, ma questo ne avrebbe rovinato totalmente l’impatto immediato.
Gli ospiti di Roma E poi c’è chi a Roma non ci è nato, ci ha vissuto e l’ha capita anche meglio degli altri. Da sempre meta di artisti di ogni tipo, La Porta descrive i soggiorni di alcuni scrittori ed attori dal secondo dopoguerra in poi. Da Garcia Marquez che rimase colpito dalla “colonna sonora” dei Parioli, scandita dai ruggiti dei leoni allo zoo, a Carlo Levi che comprese “il catastrofismo con redenzione di un’apocalisse sempre rinviata – perché tutto quello che viene a Roma cade, dal Cristianesimo all’unità d’Italia, ma non finisce mai di precipitare”, all’accettazione di Pasolini e Manganelli, il primo a dispetto dell’omosessualità, il secondo “nonostante” la pinguedine.
Riferimenti cinematografici Scenografia già pronta, il cinema non poteva non attingere a mani basse dalla bellezza, anzi dopo l’Academy Award Grande Bellezza, della città eterna. Roma di Fellini è presa da La Porta come manifesto – Sorrentino si distacca concettualmente dal regista romagnolo per il suo giudizio critico e non benevolo sui suoi personaggi – ma ci sono altre pellicole che simboleggiano meglio “l’ultimo sguardo struggente che si posa sulle cose”. Uno è il primo episodio di Caro Diario di Nanni Moretti, prima della reale odissea vissuta tra studi medici e pareri discordanti sul linfoma di Hodgkin. Poi c’è la scena finale di Io la conoscevo bene di Pietrangeli, dove una giovanissima Stefania Sandrelli percorre un lungo tratto in Cinquecento “in cui i tempi storici si fondono in un eterno presente” prima di suicidarsi alle prime luci dell’alba.
Nella sua “indifferenza calda” del “ma chi sei?” di Alberto Sordi, Roma non ti nota. Né quando arrivi, né quando te ne vai. Continuando imperturbabile a ripetere se stessa.