La fast fashion si sviluppa dagli anni Novanta grazie a marchi come Benetton, che propongono uno stile di abbigliamento riconoscibile e a basso costo. Negli anni si è evoluta inseguendo le fogge di alta moda ma a prezzi decisamente più a buon mercato. Soprattutto sono cambiate le tempistiche, per cui le collezioni sono passate dal classico estate/inverno a cicli quasi settimanali, per un costante rinnovamento degli scaffali.
L’altra faccia della medaglia, come avviene in altri settori quali l’agroalimentare, riguarda la sostenibilità. Anche se rispetto a cento anni fa si spende molto meno per l’abbigliamento e per il cibo – 1/5 dello stipendio contro il 50% del secolo scorso – la produzione è aumentata del 400%. Riporta la rivista dell’Istituto Smithsonian di Washington come l’impatto ambientale dell’industria sia importante, una sola maglietta richiede 120 litri d’acqua, un paio di jeans 70 litri. Senza contare l’uso di coloranti e agenti chimici per il trattamento dei capi che, secondo la Banca Mondiale, contribuiscono a circa il 20% dell’inquinamento idrico del pianeta.
Altro impatto pesante è quello sulla manodopera. La Nike salì ai disonori della cronaca per lo sfruttamento dei minori del sud-est asiatico e anche se la multinazionale di abbigliamento sportivo sembra essersi redenta, il problema permane. I minorenni che lavorano a tempo pieno sono scesi rispetto a dieci anni fa, ma rimangono quasi 200 milioni, stima l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La metà di questi sono sottoposti a condizioni rischiose per la salute, come l’esposizione agli agenti chimici di cui sopra.
Non che gli adulti se la passino meglio. Gli stipendi medi vanno dalla cinquantina di dollari annui in Bangladesh, Sri Lanka e India ai circa 250 della Thailandia, Paesi tra le principali fonti della fast fashion occidentale. E le condizioni di sicurezza sono inesistenti sotto tutti i punti di vista. L’unica precauzione, al massimo, sono le sbarre alle finestre per impedire che i dipendenti possano togliersi la vita. Problema comune alla produzione tecnologica, con l’ondata di suicidi che colpì la FoxConn, azienda cinese fornitrice di componenti elettronici per tutti i colossi del settore, dalla Apple alla Microsoft alla Nintendo.
Un sondaggio condotto da Fashion Revolution Graphic and Facts tra 219 marchi mostra come solo il 12% riesca a dimostrare di pagare salari adeguati; appena il 9% conosce la provenienza delle materie prime mentre il 25% ignora le condizioni dei rifornitori, monitorando solo le ultime fasi della filiera produttiva. Tutto questo favorisce il permanere del sottosviluppo, a fronte di numeri che invece sembrerebbero di grande crescita. Ad esempio il Bangladesh ha visto moltiplicarsi gli stabilimenti da una cinquantina negli anni Ottanta a oltre cinquemila nei giorni nostri, che forniscono un apporto del 13% per il PIL locale. La ricchezza, però, vira altrove, con buona pace di chi pensa che Karl Marx sia superato.
Un momento chiave che ha mostrato cosa spesso si nascondesse dietro la pratica ed economica fast fashion è stato il crollo nell’aprile 2013 del complesso Rana Plaza a Savar, nell’area metropolitana di Dacca, capitale del Bangladesh. Più di mille vittime tra gli operai in una tragedia che ha posto l’accento sull’esigenza di valorizzare il lavoro e la vita umana, anche se i risultati faticano sempre ad arrivare, almeno quelli soddisfacenti.
Oltre 140 marchi internazionali, con una copertura di circa 1300 fabbriche, hanno immediatamente firmato l’Accordo sulla sicurezza degli incendi e degli edifici per risanare l’industria tessile (e non solo) del Bangladesh. Al 1 marzo di quest’anno sono stati completati l”85% degli interventi necessari segnalati da ispezioni indipendenti e il numero dei cosiddetti multipurpose buildings, edifici multiuso come lo stesso Rana Plaza, è stato dimezzato, anche se ben 79 restano attivi.
Di fatto povertà e sfruttamento sono tutt’altro che spariti a meno che si consideri sufficiente innalzare di nemmeno 20 dollari l’anno il salario e lasciare indefinito il monte ore giornaliero. Senza dimenticare il grave problema sistemico della politica del Bangladesh, Paese “fregiato” dall’organizzazione Transparency International con il titolo di più corrotto del mondo per cinque anni di fila – non è difficile credere che ci sia molto sommerso.
La fast fashion, come ogni altro settore della produzione commerciale, è chiamata alla sfida di saper coniugare convenienza ed esigenze di mercato alle questioni etiche e di sostenibilità, aspetti fondamentali affinché i benefici possano realmente essere tangibili per tutti.
La famosa scena del film comico Zoolander, in cui al protagonista Derek viene fatto il lavaggio del cervello per uccidere il primo ministro della Malesia, “reo” di voler abolire il lavoro minorile con gravi ripercussioni per l’alta moda